L’introduzione di una web tax unionale ovvero di un sistema europeo comune d’imposta sui ricavi derivanti dalla fornitura di alcuni servizi digitali appare essenziale per garantire una competizione più equa tra le imprese nell’economia digitale.
Di Renato Loiero
Vige un generale consenso sugli ampi benefici derivanti dalla digitalizzazione, sia in termini di riduzione delle distanze tra le persone e le cose, sia per l’incremento della mobilità, la semplificazione dell’utilizzo di dati specifici per finalità connesse ai bisogni individuali dei consumatori, siano essi individui o imprese.
I benefici connessi all’economia digitale sono invece rappresentati dalle ampie opportunità di innovazione, investimento e creazione di nuove imprese ed opportunità di lavoro; fattori questi che, a propria volta, favoriscono l’espansione dei mercati consentendo la promozione di servizi migliori a prezzi più competitivi.
Per misurare la prestazione dell’Europa e dei singoli Stati membri in termini di economia digitale la Commissione europea ha elaborato indice composito, denominato DESI (Digital Economy and Society Index), che riassume gli indicatori rilevanti della prestazione europea in termini di economia digitale e ne individua l’evoluzione degli Stati membri.
Il DESI si basa su cinque elementi principali: la connettività (qualità e la diffusione della banda larga), il capitale umano (competenze necessarie per sfruttare le possibilità offerte dall’economia digitale), l’uso di Internet (varietà e attività già svolte in rete); l’integrazione della tecnologia digitale (digitalizzazione delle imprese e la capacità di sfruttamento delle potenzialità dell’e-commerce); i pubblici servizi digitali (digitalizzazione dei servizi pubblici).
Attraverso la rete, le connessioni ubique e la disponibilità di un numero praticamente indefinito di identità informatiche, gli operatori economici pongono in essere cessioni di beni e prestazioni di servizi e conseguono redditi con nuove modalità. Allo stesso tempo, gli utenti offrono e utilizzano informazioni e, più in generale, comunicano tra loro, consentendo ai soggetti operanti nella rete di trarre vantaggi e utilità, ovvero di conseguire risparmi di spesa.
Sebbene gli ordinamenti tributari siano stati fino ad oggi poco attenti alla materia, rimanendo spesso ancorati a schemi datati, come tali inidonei a cogliere gli aspetti caratterizzanti l’economia del terzo millennio, l’avvento della tecnologia digitale globalizzata ha portato le istituzioni internazionali ed europee a ritenere ormai non più differibile l’adozione di specifiche misure fiscali in materia di economia digitale.
Anche gli Stati Uniti stanno definendo un piano globale per consentire agli Stati di tassare i profitti generati dalle attività di marketing di una o più multinazionali attive nell’economia digitale. Entità che spesso ridistribuiscono i profitti imponibili in giurisdizioni in cui le società non sono tassate, oppure beneficiano di una tassazione estremamente vantaggiosa.
In tale ambito, si osserva, altresì, che le pratiche di ottimizzazione fiscale delle maggiori multinazionali, specialmente di quelle dei servizi informatici e digitali, fanno sempre più leva sull’arbitraggio tra le normative nazionali, spiazzando i governi, in particolare quelli dell’Unione europea.
Uno studio dell’OCSE del 2015, rileva che le imposte evitate dal “big business” oscillano tra i 100 e i 240 miliardi di dollari l’anno, vale a dire tra il 4 e il 10 per cento del gettito globale delle tasse sulle imprese. Un fenomeno che certamente innesca e alimenta profondi conflitti di interessi tra i Paesi più piccoli, i Paesi più grandi e gli USA.
In particolare, emerge una relazione inversamente proporzionale tra dimensione demografica di uno stato e aliquote fiscali, tale per cui i Paesi più piccoli tendono a compensare la riduzione del gettito proveniente dagli utili imponibili delle imprese con i benefici effetti sull’economia derivanti dagli investimenti e dai salari provenienti dalle multinazionali attratte dai vantaggi fiscali. I Paesi di maggior dimensione, invece, avendo società più vaste e complesse, mostrano una maggiore difficoltà a funzionare come paradisi fiscali de facto.
La difficoltà oggettiva sussistente nell’individuazione dei servizi imponibili e del rispettivo ambito territoriale, si pone tra gli ulteriori elementi che comportano l’insorgere di potenziali pratiche fiscali evasive ed elusive a livello globale.
È infatti evidente che la fornitura di beni e servizi senza una presenza fisica o legale, ovvero l’accesso gratuito dei consumatori ai servizi digitali a fronte della mera corresponsione dei propri dati personali, sono circostanze che rendono certamente più ardua l’individuazione della base imponibile nell’ambito di sistemi fiscali tradizionalmente basati su un’economia di “produzione fisica”[1].
Tale situazione d’incertezza ha, evidentemente, favorito la proliferazione di pratiche di evasione o – più frequentemente – di elusione fiscale che, come noto, tendono a massimizzare i propri profitti e minimizzare, per contro, il contributo a favore dell’erario.
Tra le politiche di contrasto ai fenomeni di evasione ed elusione, nonché della pianificazione fiscale aggressiva a livello globale assume primaria rilevanza, con particolare riferimento al settore della tassazione delle imprese, il progetto “G20/OECD Base Erosion and Profit Shifting (BEPS)”.
In attesa di soluzioni definitive a livello internazionale nel cui ambito, come accennato, l’OCSE ha già predisposto una relazione intermedia sulla tassazione dell’economia digitale, la Commissione UE ha proposto[2], sia pure quale soluzione provvisoria[3], l’introduzione di un sistema comune d’imposta sui ricavi derivanti dalla fornitura di alcuni servizi digitali.
La soluzione italiana
La questione relativa alle modalità di tassazione dell’economia digitale in Italia ha avuto un iter normativo articolato, anche in considerazione delle evidenti correlazioni con il contesto internazionale.
In questa sede si rammenta che la legge di bilancio 2018[4] aveva istituito una imposta sulle transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici, che avrebbe dovuto applicarsi a decorrere dal 1° gennaio 2019.
Tale imposta, prevedeva l’applicazione di un’aliquota del 3 per cento sul valore della singola transazione al netto dell’IVA ed avrebbe dovuto trovare applicazione nei confronti del soggetto prestatore, residente o non residente, che effettuasse nel corso di un anno solare un numero complessivo di transazioni superiore alle 3.000 unità. Restavano escluse le prestazioni rese nei confronti di soggetti committenti che avessero aderito al regime agevolato forfetario per imprese e nei confronti di professionisti di ridotte dimensioni.
L’imposta sarebbe stata prelevata, all’atto del pagamento del corrispettivo, dai soggetti committenti dei servizi assoggettati a imposizione, con obbligo di rivalsa sui soggetti prestatori, salvo specifiche ipotesi individuate dalla legge. Presupposto per l’applicazione del tributo erano le transazioni corrispondenti all’erogazione di servizi tramite mezzo elettronico di tipo business to business (B2B). Erano pertanto escluse le transazioni di commercio elettronico e quelle di tipo business to consumer (B2C).
Sul piano soggettivo, l’imposta si sarebbe dovuta applicare a tutte le imprese che erogano un servizio digitale (residenti e non residenti), con la sola esclusione delle imprese soggette al regime forfetario e dei soggetti agevolati per imprenditoria giovanile e lavoratori in mobilità. Le norme prevedevano un limite dimensionale all’attività digitale tassata, sotto forma del numero di transazioni effettuate.
Tale imposta era destinata ad applicarsi dal 1° gennaio 2019; tuttavia, il perimetro oggettivo di applicazione della stessa era stato demandato a un decreto ministeriale, che avrebbe dovuto essere emanato il 30 aprile 2018 (comma 1012 legge di bilancio 2018), poi non emanato.
La successiva legge di bilancio 2019[5] ha abrogato la precedente imposta sulle transazioni digitali istituendo, in sostituzione, l’imposta sui servizi digitali.
Ai sensi della nuova norma, sono assoggettati all’imposta tutti i soggetti esercenti attività d’impresa (persone fisiche e giuridiche, a prescindere dalla tipologia e dalla forma giuridica utilizzata), a condizione che superino la soglia di ricavi richiesta ex lege, singolarmente o a livello di gruppo, nel corso di un anno solare.
Più specificamente, i soggetti passivi devono realizzare congiuntamente:
– un ammontare complessivo di ricavi, ovunque realizzati, non inferiore a 750.000.000 euro;
– un ammontare di ricavi derivanti da servizi digitali, nel territorio dello Stato, non inferiore a 5.500.000 euro.
Sotto il profilo oggettivo, i ricavi da servizi digitali contemplati dalla norma sono quelli derivanti dalla fornitura dei seguenti servizi:
– veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia;
– messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi;
– trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale.
Sono espressamente esclusi dall’ambito operativo della norma i ricavi derivanti dai servizi digitali, se sono resi a soggetti in posizione di controllo ex articolo 2359 c.c. (siano essi controllati, controllanti o controllati dallo stesso soggetto controllante).
Per quanto attiene alla determinazione della base imponibile, la legge precisa che i ricavi tassabili sono assunti al lordo dei costi e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette. La legge precisa espressamente che il periodo d’imposta coincide con l’anno solare e che un ricavo si considera tassabile in un determinato periodo d’imposta se l’utente di un servizio tassabile è localizzato nel territorio dello Stato in detto periodo.
Al riguardo, la nuova disposizione precisa ulteriormente che un utente si considera localizzato nel territorio dello Stato:
– nel caso di un servizio di veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata, se la pubblicità in questione figura sul dispositivo dell’utente nel momento in cui il dispositivo è utilizzato nel territorio dello Stato in detto periodo d’imposta, per accedere a un’interfaccia digitale;
– nel caso di un servizio di messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi:
a) se il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale che facilita le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti, l’utente utilizza un dispositivo nel territorio dello Stato in detto periodo d’imposta per accedere all’interfaccia digitale e conclude un’operazione corrispondente su tale interfaccia in detto periodo d’imposta;
b) se il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale di un tipo che non rientra nel punto 1;
c) se l’utente dispone di un conto per la totalità o una parte di tale periodo d’imposta, che gli consente di accedere all’interfaccia digitale e tale conto è stato aperto utilizzando un dispositivo nel territorio dello Stato;
– nel caso di un servizio di trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale: se i dati generati dall’utente che ha utilizzato un dispositivo nel territorio dello Stato per accedere a un’interfaccia digitale, nel corso di tale periodo d’imposta o di un periodo d’imposta precedente, sono trasmessi in detto periodo d’imposta.
I soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato e di un numero di partita IVA, che nel corso di un anno solare realizzano i presupposti per l’applicazione dell’imposta, sono tenuti a richiedere all’Agenzia delle Entrate un numero identificativo ai fini dell’imposta sui servizi digitali.
I soggetti residenti nel territorio dello Stato, ove appartengano allo stesso gruppo dei soggetti non residenti (di cui supra) sono solidalmente responsabili con questi ultimi per le obbligazioni derivanti dalla nuova imposta, la cui disciplina è contenuta nelle norme in esame.
La nuova norma prevede l’applicazione dell’aliquota d’imposta del 3 per cento, applicabile sull’ammontare dei ricavi tassabili realizzati dal soggetto passivo in ciascun trimestre.
L’imposta così determinata deve essere versata entro il mese successivo a ciascun trimestre, mentre il termine di presentazione della relativa dichiarazione fiscale è annuale e riguarda l’ammontare dei servizi tassabili prestati entro 4 mesi dalla chiusura del periodo d’imposta.
Per quanto non espressamente previsto dalla nuova disposizione, trovano applicazione le disposizioni previste in materia di imposta sul valore aggiunto, in quanto compatibili.
Le disposizioni di attuazione dell’imposta sui servizi digitali sono demandate a un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emettere, entro 4 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, di concerto con il Ministro dello Sviluppo Economico, sentite l’Autorità per la garanzia nelle comunicazioni, l’Autorità garante per la protezione dei dati personali e l’Agenzia per l’Italia digitale. Le modalità applicative dell’imposta sono invece affidate ad uno o più provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle entrate.
Il comma 678 della Legge di Bilancio 2020[6] modifica la disciplina dell’imposta sui servizi digitali introdotta dalla legge di bilancio 2019 sotto diversi profili e, segnatamente: chiarendo le modalità applicative dell’imposta, individuando le ipotesi di esclusione dall’imposta, obbligando i soggetti passivi non residenti alla nomina di un rappresentante fiscale, ammettendo l’applicazione dell’imposta dal 1° gennaio 2020, svincolandone così l’operatività dalla normativa secondaria, prevedendo altresì una norma di chiusura che determini l’automatica abrogazione della disciplina dell’imposta a seguito e in dipendenza dell’entrata in vigore disposizioni derivanti da accordi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale.
In particolare, in virtù del neo introdotto comma 35-bis l’imposta sui servizi digitali si applica sui ricavi derivanti dalla fornitura dei servizi digitali, realizzati dai soggetti passivi di imposta nel corso dell’anno solare.
Viene altresì introdotta una corrispondente modifica al comma 36 chiarendo che, per il computo delle soglie di ricavi che consentono l’applicazione dell’imposta, sono presi in considerazione i ricavi conseguiti nell’anno precedente a quello di riferimento.
Il nuovo comma 37-bis esclude espressamente dalla nozione di servizi digitali:
- la fornitura diretta di beni e servizi, nell’ambito di un servizio di intermediazione digitale;
- la fornitura di beni o servizi ordinati attraverso il sito web del fornitore di quei beni e servizi, quando il fornitore non svolge funzioni di intermediario;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale il cui scopo esclusivo o principale è quello della fornitura agli utenti dell’interfaccia da parte del soggetto che gestisce l’interfaccia stessa di: contenuti digitali, servizi di comunicazione o servizi di pagamento;
- la messa a disposizione di un’interfaccia digitale utilizzata per gestire alcuni servizi bancari e finanziari;
- la cessione di dati da parte dei soggetti che forniscono i servizi finanziari indicati alla precedente lettera d);
- lo svolgimento delle attività di organizzazione e gestione di piattaforme telematiche per lo scambio dell’energia elettrica, del gas, dei certificati ambientali e dei carburanti, nonché la trasmissione dei relativi dati ivi raccolti e ogni altra attività connessa.
Il nuovo commi 39-bis della legge di bilancio 2019 chiarisce che i corrispettivi versati per la prestazione dei servizi con cui si mette a disposizione un’interfaccia digitale multilaterale, che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi, comprendono l’insieme dei corrispettivi versati dagli utilizzatori dell’interfaccia digitale multilaterale, ad eccezione di quelli versati come corrispettivo della cessione di beni o della prestazione dì servizi che costituiscono, sul piano economico, operazioni indipendenti dall’accesso e dall’utilizzazione del servizio imponibile.
Il nuovo comma 39-ter specifica, invece, che non devono essere considerati i corrispettivi della messa a disposizione di un’interfaccia digitale che facilita la vendita di prodotti soggetti ad accisa (ai sensi dell’articolo l, paragrafo l, della Direttiva del Consiglio 2008/118/CE dell6 dicembre 2008, relativa al sistema generale di accise), quando hanno un collegamento diretto e inscindibile con il volume o il valore di tali vendite.
Il comma 40-bis chiarisce a quali condizioni un dispositivo si considera localizzato nel territorio dello Stato, ai fini dell’individuazione degli utenti collocati nel territorio nazionale (e, dunque, ai fini dell’esistenza del presupposto di imposta). In particolare, la localizzazione avviene con riferimento principalmente all’indirizzo di protocollo internet (lP) del dispositivo stesso o ad altro sistema di geolocalizzazione, nel rispetto delle regole relative al trattamento dei dati personali.
Ai sensi del nuovo comma 40-ter, ove un servizio imponibile è fornito nel territorio dello Stato nel corso di un anno solare – ai sensi del comma 40 – il totale dei ricavi tassabili viene definito come il prodotto della totalità dei ricavi derivanti dai servizi digitali, ovunque realizzati, per la percentuale rappresentativa della parte di tali servizi collegata al territorio dello Stato.
Le norme fissano convenzionalmente tale percentuale, che è pari:
- per i servizi di veicolazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti della medesima interfaccia (comma 37, lettera a)), alla proporzione dei messaggi pubblicitari collocati su un’interfaccia digitale, in funzione dei dati relativi ad un utente che consulta tale interfaccia mentre è localizzato nel territorio dello Stato;
- per i servizi di messa a disposizione di un’interfaccia digitale multilaterale che consente agli utenti di essere in contatto e di interagire tra loro, anche al fine di facilitare la fornitura diretta di beni o servizi (comma 37, lettera b)): i) se il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale che facilita le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti, alla proporzione delle operazioni di consegna di beni o prestazioni di servizi per le quali uno degli utenti dell’interfaccia digitale è localizzato nel territorio dello Stato; ii) se il servizio comporta un’interfaccia digitale multilaterale di un tipo che non rientra tra quelli dì cui al numero l), alla proporzione degli utenti che dispongono di un conto aperto nel territorio dello Stato che consente di accedere a tutti o parte dei servizi disponibili dell’interfaccia e che hanno utilizzato tale interfaccia durante l’anno solare in questione;
- per i servizi di trasmissione di dati raccolti da utenti e generati dall’utilizzo di un’interfaccia digitale (di cui al comma 37, lettera c)), alla proporzione degli utenti per i quali tutti o parte dei dati venduti sono stati generati o raccolti durante la consultazione, quando erano localizzati nel territorio dello Stato, di un un’interfaccia digitale.
La nuova legge ha altresì modificato il previgente comma 41, stabilendo che l’imposta si applica sui ricavi realizzati nell’anno solare, in luogo dei ricavi realizzati trimestralmente. Conseguentemente, sono state anche riviste le modalità di versamento previste nel comma 42, ora stabilita per il 16 febbraio dell’anno solare successivo a quello di riferimento, e di presentazione della dichiarazione annuale sull’ammontare dei servizi tassabili forniti, attualmente prevista entro il 3l marzo dello stesso anno. Per le società appartenenti al medesimo gruppo, per l’assolvimento degli obblighi derivanti dalle disposizioni relative all’imposta sui servizi digitali è nominata una singola società del gruppo.
A parziale modifica del previgente comma 43, come accennato, la nuova normativa, ai soggetti non residenti, privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, stabiliti in uno Stato diverso da uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo con il quale l’Italia non ha concluso un accordo di cooperazione amministrativa per lottare contro l’evasione e la frode fiscale e un accordo di assistenza reciproca per il recupero dei crediti fiscali, è ora prescritto di nominare un rappresentante fiscale per assolvere gli obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sui servizi digitali.
Il nuovo comma 44-bis, invece, obbliga i soggetti passivi dell’imposta a tenere un’apposita contabilità per rilevare mensilmente le informazioni sui ricavi dei servizi imponibili, cosi come gli elementi quantitativi mensili utilizzati per calcolare le proporzioni dei servizi imponibili. L’informazione sulle somme riscosse mensilmente precisa, ove necessario, l’importo riscosso in una valuta diversa dall’euro e l’importo convertito in euro. Le somme incassate in una valuta diversa dall’euro sono convertite applicando l’ultimo tasso di cambio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea, noto il primo giorno del mese nel corso del quale le somme sono incassate.
Al fine di consentire l’applicazione dell’imposta indipendentemente dall’emanazione della relativa normazione secondaria di attuazione, la nuova Legge ha disposto l’abrogazione del comma 45 della legge di bilancio 2019 – che affida a un decreto ministeriale il compito di stabilire le disposizioni di attuazione dell’imposta sui servizi digitali – unitamente alla integrale sostituzione del comma 47, stabilendo che l’imposta sui servizi digitali si applichi dal 1° gennaio 2020 in luogo di subordinarne l’applicazione all’emanazione delle relative disposizioni attuative.
Come accennato, infine, con una disposizione di chiusura, la nuova Legge chiarisce che la disciplina dell’imposta sui servizi digitali in esame è abrogata con decorrenza dal momento in cui entrano in vigore disposizioni derivanti da accordi internazionali in materia di tassazione dell’economia digitale.
2 – Riflessioni conclusive
Il primo gennaio di quest’anno, con l’entrata in vigore della Legge di Bilancio 2020, è stata introdotta in Italia la “digital tax”, che rappresenta la seconda previsione nell’Area Euro dopo quella francese.
Come osservato, tale imposta era già presente nelle Leggi di Bilancio dei due anni precedenti, ma la sua entrata in vigore è slittata a causa di ragioni tecniche e in attesa di raggiungere accordi a livello europeo e globale.
A tal riguardo, il Ministro dell’economia e delle finanze pro tempore Giovanni Tria, nell’audizione svoltasi presso le Commissioni congiunte 5° del Senato e V della Camera nel mese di luglio 2019 aveva reso noto che l’attuazione dell’imposta è subordinata all’evoluzione del quadro internazionale.
Come si accennava, lo scorso 9 ottobre 2019 l’OCSE ha pubblicato una proposta (presentata al G20 di Washington a metà ottobre) volta a promuovere il negoziato sulla tassazione delle multinazionali, specialmente quelle che operano nel digitale, al fine allocare la tassazione di tali imprese nei luoghi in cui svolgono attività significative nei confronti dei consumatori e in cui esse generano i propri profitti. La proposta OCSE riunisce elementi comuni a tre proposte provenienti dai Paesi membri. Essa è aperta alla consultazione pubblica e intende riallocare alcuni profitti, nonché il corrispondente gettito fiscale, nei Paesi e nelle giurisdizioni in cui sono siti i mercati delle multinazionali.
L’intenzione della legge è quella di introdurre una tassazione equa sulle grandi imprese del web, prevalentemente americane e cinesi, anche nel perseguimento di uno degli obiettivi della cosiddetta “Agenda Digitale Europea” che fa parte del programma strategico “Europa 2020”.
Anche se l’Agenda si prefigge di trovare una soluzione univoca entro fine 2020, alcuni paesi membri si sono opposti alla “web tax”.
Come accennato nella citata precedente analisi OFP, in assenza di un accordo internazionale, in sede OCSE o quantomeno in sede europea, la digital tax domestica presenta alcuni profili critici, soprattutto per ciò che concerne i possibili effetti sulla competitività delle imprese locali e sulla trasformazione digitale dell’economia.
Per quanto attiene specificamente alla Legge italiana, la prima preoccupazione è che le nuove norme, quantomeno nell’attuale formulazione, non sembrano prevedere adeguate misure volte ad evitare che il carico fiscale della nuova imposta sia traslato sui consumatori.
Un ulteriore questione si pone con riferimento ad alcune grandi imprese editoriali nazionali, che resterebbero largamente incise dal nuovo tributo, in evidente contrasto con le finalità della norma.
Si rileva altresì, che il neo introdotto obbligo, imposto alle imprese del web, di “geolocalizzare” gli utenti al fine di verificare se la transazione è localizzata in Italia, potrebbe risultare non compatibile con le previsioni vigenti in ambito privacy.
In ultimo, si consideri che gli Stati Uniti, considerando la digital tax come una discriminazione nei confronti delle loro imprese, hanno già annunciato che reagiranno imponendo dazi su prodotti francesi e italiani.
Tutto questo, ovviamente, non esclude ed anzi rafforza l’auspicata necessità di trovare una rapida soluzione a livello internazionale, o, quanto meno in ambito europeo. Una soluzione europea consentirebbe invero di negoziare con gli Stati Uniti con maggior forza contrattuale. Si potrebbe ad esempio pensare a una formula per la ripartizione dei profitti tra paesi UE, così da evitare che i profitti delle compagnie multinazionali del web finiscano per essere sottotassati.
Per quanto attiene all’auspicata possibilità di pervenire ad un’intesa a livello globale non può sottacersi che il recente ritiro dagli Stati Uniti dai negoziati sulla digital tax in sede Ocse, per quanto temporaneo, non sembra militare in tal senso. In tale ambito, il segretario dell’Ocse non ha mancato di ribadire come in assenza di una soluzione condivisa, i Paesi potrebbero agire unilateralmente e questo ‘“darebbe luogo a controversie fiscali e, inevitabilmente, a un aumento delle tensioni commerciali. Una guerra commerciale, soprattutto in questo momento, in cui l’economia mondiale sta attraversando una recessione storica, danneggerebbe ulteriormente l’economia, i posti di lavoro e la fiducia1”.
Per quanto riguarda l’Italia, il ministro dell’Economia ha comunicato che la posizione dell’Italia “non cambia. Abbiamo sempre sostenuto l’importanza di una soluzione globale e, nonostante l’emergenza Covid19, con Francia, Spagna e UK siamo determinati a continuare a lavorare per una soluzione entro il 2020, come deciso dal G20”.
Il descritto scenario, ovviamente, muterebbe radicalmente a seconda dell’esito delle elzoipni presidenziali negli USA; è molto probabile che prima di tali elezioni sarà difficilissimo addivenire a una soluzione condivisa a livello mondiale.
Alla luce di quanto precede, considerato che il raggiungimento di un accordo a livello OCSE entro il 2020 (come si era ipotizzato ante emergenza) sembra oggi altamente improbabile, non resta che auspicare un’accelerazione dei lavori per l’istituzione di una digital tax europea.
In proposito, sebbene l’implementazione di una digital tax europea potrebbe attuarsi in tempi brevi – considerato che le vigenti legislazioni nazionali in materia di web tax, come sopra accennato, ricalcano specularmente l’originaria proposta europea [i.e. proposta di Direttiva COM (2018) 148 del marzo 2018], non può sottacersi che poco più di un anno fa non si è raggiunto un accordo su tale proposta di Direttiva; verosimilmente in ragione dell’opposizione da parte di alcuni Stati (tra cui Svezia, Irlanda e Danimarca).
È altrettanto vero, tuttavia, che lo scenario europeo ed internazionale è radicalmente mutato a seguito dell’emergenza epidemiologica ex Covid-19. Una delle possibili opzioni potrebbe essere una nuova imposta (digital tax europea) destinata a contribuire al finanziamento del bilancio dell’Unione in un momento di particolare tensione finanziaria. Si consideri, al riguardo, che il gettito ritraibile da una digital tax europea potrebbe essere efficacemente destinato al finanziamento, almeno parziale, dei piani di intervento europei (SUREW, Next generation plan).
Si osserva altresì che una politica fiscale comune, consentirebbe ai singoli Stati di attenuare, almeno in tale ambito, gli effetti distorsivi della concorrenza fiscale già in atto da parte da parte di alcuni Paesi membri.
Una risposta comune a livello europeo, inoltre, sotto il profilo diplomatico sarebbe certamente più efficace rispetto ad una serie di interlocuzioni bilaterali con gli USA, nel cui ambito il “potere negoziale” dei singoli Stati europei sarebbe drasticamente ridotto. In assenza del raggiungimento di una soluzione comune a livello OCSE, difatti, la via europea consentirebbe di superare le molte tensioni internazionali che hanno portato, da una parte, alla emanazione delle diverse legislazioni nazionali in materia di web tax e, dall’altra, alla paventata introduzione di dazi all’importazione di beni soprattutto dall’amministrazione USA.
Alla luce delle suesposte osservazioni, l’introduzione di una digital tax europea in tempi ragionevoli appare essenziale, sia per allineare le diverse legislazioni nazionali sulla web tax presenti all’interno dell’Unione Europea, sia per finanziare il bilancio dell’Unione in una situazione economica particolarmente critica e senza precedenti.
Per accelerare tale processo è stato addirittura proposto di rinunciare definitivamente alla “nostra” imposta sul web delegando integralmente all’Ue l’istituzione di un’imposta unionale, in ragione del fatto che il gettito previsto dall’imposta domestica è stimato in 750 milioni per il 2020.
[1] In argomento, cfr. European Parliament, Tax challenges in the digital economy – Study for the TAX EU Committee, 2016, pp. 17 ss.
[2] A livello unionale, nel 2016 la Commissione ha rilanciato la proposta relativa a una base imponibile consolidata comune per l’imposta sulle società (CCCTB). Già la prima raccomandazione C (2012) 8806 era dedicata interamente alla pianificazione fiscale aggressiva, suggerendo l’adozione di una clausola antiabuso, applicata dal Regno Unito con la “Diverted Profits Tax”, nonché la revisione delle norme interne o convenzionali che provocano casi di doppia esenzione (che ha consentito, ad esempio, operazioni triangolari note con l’acronimo di “Double Irish with Dutch Sandwich”). V. COM(2016) 685 final e COM(216) 683 final. Sul versante IVA, la proposta della Commissione sul commercio elettronico è stata adottata dal Consiglio nel dicembre 2017, in linea con altre misure recate dal piano d’azione sull’IVA COM(2016) 148 final.
[3] A regime propone invece un prelievo che colpisca gli utili dovunque generati, proponendo l’impiego, quali criteri di localizzazione alternativi, la registrazione di almeno sette milioni di euro di fatturato annuale in un Paese membro; almeno 100 mila utilizzatori in un Paese membro durante un dato esercizio fiscale; almeno 3.000 contratti commerciali sempre in un dato Paese membro).
[4] Legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, co. 1011-1019
[5] Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, co. 35-50
[6] Legge 27 dicembre 2019, n.160