L’emergenza del Covid-19 impone una riflessione su come sono state impostate le politiche sanitarie negli ultimi anni.
La valutazione riguardo ai vari meccanismi di sostegno in via di definizione a livello comunitario costituisce un’occasione unica per apportare modifiche e integrazioni in tema di programmazione e organizzazione del servizio sanitario.
Le nuove tecnologie, in particolare la telemedicina, costituiscono una ulteriore opportunità da sfruttare per assicurare una spesa più efficiente, garantendo sul territorio un adeguato livello di servizio e rendendo meno stringente il vincolo di bilancio sul costo complessivo del servizio stesso. Di seguito viene offerta una analisi di tale tema al fine di favorire un migliore orientamento delle scelte, assai delicate, che nei prossimi mesi dovranno essere adottate a livello centrale e locale.
Di Renato Loiero
Premessa: il servizio sanitario nazionale, nascita e struttura
La legge n. 833 del 23 dicembre 1978 soppresse il sistema mutualistico ed istituì il SSN “Servizio sanitario nazionale”, con decorrenza dal 1º luglio 1980. Il principio ispiratore del sistema sanitario nazionale, rifacendosi all’esperienza britannica dell’immediato dopoguerra, è quello della sanità come bene ad un tempo pubblico e privato, universalmente e gratuitamente fruibile, mentre il reperimento delle risorse destinate al Fondo Sanitario Nazionale (FSN) che finanzia il SSN è demandato al governo centrale.
Attraverso esso è stata data attuazione all’articolo 32 della Costituzione italiana che sancisce il “diritto alla salute” di tutti gli individui. Si presenta come un sistema pubblico di carattere “universalistico”, tipico di uno stato sociale, che garantisce l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini, finanziato principalmente dallo Stato stesso attraverso la fiscalità generale.
Dal punto di vista strutturale è costituito dai servizi sanitari regionali, a loro volta articolati in unità sanitarie locali (in seguito aziende sanitarie locali) all’interno delle quali sono incardinate le singole strutture demandate alla fornitura dell’assistenza sanitaria, dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale e dallo Stato, tutti unitariamente volti a garantire la salvaguardia della salute dei cittadini.
Il servizio sanitario è articolato secondo diversi livelli di responsabilità e di governo:
- livello centrale – lo Stato ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un sistema di garanzie, sancito attraverso i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA);
- livello regionale – le Regioni hanno la responsabilità diretta della realizzazione del governo e della spesa per il raggiungimento degli obiettivi di salute del Paese.
Le Regioni hanno competenza esclusiva nella regolamentazione ed organizzazione di servizi e di attività destinate alla tutela della salute e dei criteri di finanziamento delle Aziende Sanitarie Locali e delle aziende ospedaliere, anche in relazione al controllo di gestione e alla valutazione della qualità delle prestazioni sanitarie nel rispetto dei principi generali fissati dalle leggi dello Stato.
Nel 1969 Richard Crossman, segretario di Stato per la sanità e i servizi sociali nel Regno Unito, affermò che non c’è un limite alla spesa sociale che la nazione può ragionevolmente richiedere oltre a quello che stabilisce il governo. Voleva giustificare la crescita della spesa sanitaria pubblica in rapporto al Pil.
In Italia per tutti gli anni ottanta, in pratica dalla nascita del SSN alla fine del 1978 fino alla crisi finanziaria e valutaria del 1992, seguita dalla svalutazione e dall’uscita dello SME, si sviluppò il sistema sanitario ancorandolo a questo principio, con un netto miglioramento degli indici di dotazioni professionali ed infrastrutturali, ma non senza criticità in termini di inefficienze e riflessi negativi sull’evoluzione della spesa pubblica.
Comunque, la crescita della domanda e quella dell’offerta di salute procedevano insieme, alimentandosi a vicenda.
Altri tempi, ovvio. La crisi del 1992 e i primi decreti delegati in materia sanitaria hanno un impatto che non è solo finanziario, ma è in primis culturale. Tende a restringersi il campo per l’idea che in sanità non esiste sostanzialmente il vincolo delle risorse e da un sistema basato sul ripiano delle spese sostenute, senza limiti se non di natura strettamente clinico-medica, si passa ad un meccanismo di rimborso fondato sul prezzo congruo per la prestazione riferibile all’esigenza clinica del paziente (DRGs), sostanzialmente reintroducendo così nel SSN universalistico e gratuito concepito negli anni settanta un meccanismo non dissimile da quello valido nel precedente sistema delle “mutue”.
Nel corso degli anni novanta i tentativi di migliorare il rapporto fra risorse impiegate nel sistema sanitario e qualità dei servizi offerti, mantenendo questi per quanto possibile inalterati conseguendo più elevati indici di produttività ed efficienza, fu perseguita, oltre che con la modifica dei criteri di rimborso delle prestazioni, anche con l’aziendalizzazione delle strutture di base del nostro sistema sanitario che, anche nominalmente, attraversano il passaggio da unità ad aziende sanitarie.
Sul finire del decennio la politica sanitaria sembrò oscillare fra i due poli di una più decisa pubblicizzazione ed universalizzazione del servizio, da un lato, e l’approfondimento del percorso di inserimento di elementi privatistici nel SSN, dall’altro.
Così prima il decreto legislativo n. 229 del 1999 introduce il divieto, per i medici dipendenti dalle ASL, di svolgere attività privata all’interno o all’esterno delle strutture pubbliche, ma in seguito tale obbligo di scelta viene superato con l’introduzione della possibilità di svolgere attività privata intra-moenia (anche se non necessariamente all’interno delle strutture pubbliche).
Analogamente, i primi interventi diretti in ambito finanziario rivelarono la medesima contraddittorietà, non indirizzandosi decisamente in nessuna direzione: i tentativi di razionalizzazione e contenimento della spesa operati dal governo nel 1998 furono a stretto giro seguiti dal cambio di direzione segnato dall’abolizione generalizzata dei ticket farmaceutici nella sessione di bilancio per il 2001.
Da allora, tuttavia, il processo di contenimento della spesa è un dato permanente delle politiche sanitarie nazionali, anche se per ancora un quinquennio la restrizione delle risorse stabilite ex ante viene di fatto aggirata dalla presa in carico da parte dello Stato degli sforamenti registrati ex post: ma la strada sembra ormai obbligata, fino ad arrivare alla situazione attuale che, già prima dell’emergenza covid, appariva critica.
La garanzia del diritto alla salute per tutti, oggetto di continui ossequi sempre più formali, riconosciuto come assolutamente prevalente rispetto ai vincoli finanziari solo laddove i costi relativi non sono comunque molto rilevanti, talvolta oggetto di un’estensione teorica neanche immaginabile agli albori del welfare, sancito come diritto fondamentale da molteplici istituzioni internazionali, fra cui la stessa UE, è tuttavia di fatto minacciata da molteplici e ripetute restrizioni finanziarie, anche perché “è ritenuta come il settore della politica sociale che più di altri può minare la sostenibilità fiscale futura dei sistemi di welfare europei” (J.K. Helderman in Health Economics, Policy and Law, 2015).
Dal 2002 al 2006 la spesa sanitaria corrente è cresciuta in valore assoluto di 19.971 milioni di euro, con un incremento medio annuo del 5,8%. Già nel quinquennio successivo, la crescita rallenta decisamente, attestandosi in valore assoluto a 11.466 milioni di euro, con un tasso medio annuo del 2,2%.
Tale prima, evidente cesura nella dinamica osservata dalla spesa sanitaria è principalmente il risultato del salto di paradigma avviato dal 2006 rispetto alla legislazione previgente, a seguito della forte responsabilizzazione regionale e del venir meno della regola “dell’aspettativa del ripiano dei disavanzi”, che in precedenza aveva indotto comportamenti opportunistici da parte delle Regioni, allentando il vincolo di bilancio e rendendo necessaria una rinegoziazione ex-post della cornice finanziaria.
Si ricorda, in particolare, l’esperienza dell’anno 2004, con il conferimento di 2.000 milioni di euro per il concorso statale al ripianamento dei disavanzi registrati dalle regioni nel periodo 2001-2003 e quella del 2005, con il conferimento di ulteriori 2.000 milioni di euro per il concorso statale al ripianamento dei disavanzi registrati dalle regioni nel periodo 2002-2004.
La situazione di squilibrio economico strutturale appariva particolarmente significativa in alcuni contesti regionali. Può osservarsi, infatti, che nel 2006, dei circa 6.000 milioni di euro di disavanzo complessivo del settore sanitario, circa 3.800 milioni di euro erano concentrati in tre sole regioni: Lazio, Campania e Sicilia.
E’ a questo punto che si introducono i cd. piani di rientro.
Tale strumento si configura come un vero e proprio programma di ristrutturazione industriale finalizzato al conseguimento di una profonda e permanente riorganizzazione del SSR interessato. Ciò avviene attraverso l’individuazione delle aree di importante ritardo o inefficienza, all’origine dello squilibrio economico, a cui è associata la programmazione e l’implementazione di opportune misure di correzione di tali criticità.
Con riferimento all’attuazione dello strumento dei piani di rientro dal disavanzo sanitario, si ricorda che nel 2006 le regioni Liguria, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Sicilia e Sardegna hanno predisposto i rispettivi piani di rientro di durata triennale che sono stati perfezionati e definitivamente sottoscritti, insieme al relativo accordo, nel 2007. Alla fine del 2009, anche la Calabria ha sottoscritto il suo piano di rientro.
Nell’anno 2010, invece, la Liguria e la Sardegna sono uscite dal piano. Nel medesimo anno, Piemonte e Puglia hanno sottoscritto e avviato un piano di rientro, seppur caratterizzato da un livello d’intervento di minore intensità (c.d. “piano di rientro leggero”) rispetto a quello previsto per le altre regioni; nel corso del 2017 la regione Piemonte è uscita dal piano di rientro. Gli effetti finanziari dell’implementazione del sistema di governance in ambito sanitario sono ben visibili dall’analisi della dinamica della spesa a livello regionale.
Al contenimento del tasso di crescita della spesa sanitaria complessiva registrato a livello nazionale hanno concorso, in misura significativa, le regioni sottoposte ai piani di rientro. Infatti, queste ultime hanno fatto registrare, nel periodo 2003-2006, un tasso di crescita medio annuo della spesa sanitaria pari al 6,6% che, nel quinquennio successivo si riduceva al 4,1% per diventare addirittura negativo (-0,1%) tra il 2012 e il 2018. Sull’intero orizzonte temporale considerato la spesa sanitaria delle regioni non sotto piano di rientro è passata dal 5,4% del primo quadriennio all’1,3% degli ultimi sette anni. (Fonte RGS – Il documento con la tabella di prima)
Il contenimento della spesa fra piani di rientro e politiche generali
In modo più incisivo attraverso i piani di rientro, ma anche per il tramite delle scelte politiche generali, gli interventi per il contenimento e la razionalizzazione della spesa sanitaria hanno interessato le diverse componenti della spesa dedicata al finanziamento del SSN.
La riduzione delle risorse è stata perseguita e, in un certo senso, anche fronteggiata con:
-la rimodulazione o l’introduzione di nuovi tetti di spesa, in particolare nell’ambito della spesa farmaceutica (sia territoriale che ospedaliera), con meccanismi sanzionatori fondati sul cd. payback a carico delle imprese produttrici;
-la parziale riorganizzazione della rete ospedaliera, gestita con la riduzione degli ospedali e dei posti letto, ed accompagnata, come corollario essenziale, dal controllo delle spese per il personale ospedaliero, sia attraverso il blocco del turn-over che in virtù di una politica di moderazione salariale;
-un diverso sistema di acquisto e gestione dei beni e dei servizi in ambito sanitario, accentrandolo nei limiti del possibile e/o riducendo ope legis i prezzi di acquisto (per esempio per i dispositivi medici, per l’acquisto delle prestazioni dalle strutture sanitarie private accreditate).
Ancora di recente, il cd Decreto Calabria (n. 35 del 2019) è intervenuto sul contenimento per la spesa del personale SSN e sul blocco del turn-over, nonché sulle modalità assunzionali del personale medico.
Temi, questi ultimi, sui quali erano già intervenute le leggi di bilancio 2018 e 2019.
Pur volendo riconoscere nella spending review in sanità, iniziata in modo rilevante nel 2011, anche l’intento di recuperare almeno parte delle aree di inefficienza sia a livello gestionale che organizzativo presenti nel SSN, resta il problema di una rilevante contrazione delle risorse investite solo parzialmente compensata da recuperi di efficienza, a fronte, fra l’altro, di fabbisogni crescenti in rapporto ai costosi progressi farmacologici e tecnologici intervenuti e alle accresciute fragilità di una popolazione in via di costante invecchiamento.
Gli ultimi 10 anni – una crisi annunciata
Dal 2011 fino al 2018 la dinamica di crescita della spesa è risultata ancora in diminuzione (+5.586 milioni di euro), con un tasso di crescita medio annuo dello 0,7% confermando, quindi, l’efficacia applicativa delle misure di razionalizzazione della spesa, ivi inclusa l’adozione dei piani di rientro, nel contenere la spesa sostanzialmente entro i limiti programmati.
Ma – come è noto – è il decennio della politica di austerità, che ha pesantemente coinvolto anche il settore sanitario, fissando livelli di finanziamento strutturalmente inferiori al valore tendenziale (sia pur con diversa intensità nei diversi anni, risentendo in tal senso della congiuntura più o meno favorevole) e rafforzando gli strumenti di contenimento della spesa in modo da conseguire gli obiettivi finanziari previsti.
La situazione attuale
Il fabbisogno sanitario nazionale è stato fissato, per il 2019, in 114.439 milioni di euro, con ulteriori incrementi programmati pari a 2.000 milioni per il 2020 e di ulteriori 1.500 milioni per il 2021. L’accesso delle regioni al riparto di tali incrementi è stato condizionato alla stipula dell’Intesa in sede di Conferenza Stato-regioni per il Patto per la salute 2019-2021, che ha previsto in effetti misure finalizzate al miglioramento della qualità delle cure e dei servizi erogati, oltre che all’efficientamento dei costi.
Per l’anno 2018 il livello di finanziamento complessivo cui ha concorso ordinariamente lo Stato da destinare alla spesa del SSN era stato inizialmente definito in 114 miliardi di euro dalla legge di bilancio per il 2017 (L. 232/2016). Tale valore è stato successivamente ridotto per il concorso delle regioni ai vincoli di finanza pubblica, fino ad arrivare all’importo effettivamente erogato di 112,7 miliardi.
In sostanza quindi il livello del 2019 sopra riportato eccedeva di soli 400 milioni il FSN inizialmente fissato per il 2018, una volta considerati i due opposti movimenti intervenuti nel frattempo (prima in riduzione, poi in aumento).
Nel 2019, secondo l’Ocse, l’Italia si attesta sotto la media, sia per la spesa sanitaria totale sia per quella pubblica, precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. Tuttavia nel nostro Paese, nonostante una spesa sanitaria inferiore alla media, si riesce ad avere la quarta più alta aspettativa di vita di tutta l’Ocse. Ma entrano in gioco anche stili di vita ed alimentari più sani.
E se 10 anni fa il finanziamento della spesa sanitaria sul PIL sfiorava il 7% ormai siamo giunti al 6,3% circa: e si consideri che i tassi di crescita del PIL sono inferiori a quelli del primo decennio del secolo.
E’ chiaro che una politica di contenimento di costi così significativa ed estesa nel tempo, pur in presenza di recuperi di efficienza e di oneri parzialmente scaricati – come detto – sui soggetti privati fornitori di beni e servizi, non poteva non riflettersi sulla qualità dei servizi resi, anche a causa della necessità di garantire il sostanziale (anche se spesso tardivo, rispetto agli altri servizi sanitari) adeguamento ai sempre più avanzati standard farmacologici e tecnologici, nonché della maggiore domanda di salute da parte di una popolazione sempre più vecchia e quindi più fragile e spesso con pluri-patologie.
Si è cercato di mantenere integro il cuore del sistema, la prestazione ospedaliera per acuti, specie d’urgenza. Ma l’impatto dei tagli si è riverberato
-sui tempi d’accesso alle prestazioni specialistiche o diagnostiche e agli interventi chirurgici d’elezione, spesso anche con effetti paradossalmente distorcenti delle necessità cliniche e con impliciti incentivi a rivolgersi alla sanità privata,
-sull’attenzione alla fase post-acuzie e riabilitativa, anch’essa spesso a carico dei pazienti e delle loro famiglie, a parte la fase iniziale, ormai rigidamente determinata e limitata,
-sulla qualità dell’assistenza territoriale, con i medici di medicina generale pienamente innestati nei meccanismi di controllo della spesa specialistica, diagnostica e farmaceutica ma sostanzialmente privi dei necessari strumenti (anche banali, come il tempo) per garantire un adeguato e tempestivo livello di gestione delle esigenze sanitarie senza il coinvolgimento delle strutture ospedaliere, soprattutto in relazione al paziente cronico e/o fragile; e con l’assistenza domiciliare, infermieristica o fisioterapica, gravemente menomata dalla scarsa disponibilità di risorse.
-sulla qualità dei servizi di pronto soccorso, sui quali finiscono per scaricarsi le criticità legate ai tempi di attesa per prestazioni specialistiche/diagnostiche e alla debolezza della medicina territoriale nella fase di accesso, nonché quelle legate alla disponibilità di posti letto liberi per i ricoveri nella fase di uscita dal P.S.
e ovviamente non dimentichiamo questo, sulla cui tragica importanza solo in questi mesi abbiamo acquisito consapevolezza:
La medicina territoriale indebolita
Anche il grave indebolimento della medicina territoriale di cui parlavo è emerso in tutta la sua gravità e nelle sue esiziali conseguenze nella recente crisi da covid-19. Molti osservatori hanno collegato la netta differenza nei tassi di mortalità fra Germania ed Italia proprio alla diversa funzionalità della medicina sul territorio.
Da noi, spesso abbandonati a se stessi, i malati si sono riversati negli ospedali, spesso tardivamente, innescando focolai infettivi, esponendosi al rischio di micidiali sovra-infezioni batteriche, mentre in Germania, anche grazie al maggiore sviluppo tecnologico, la prima linea sul territorio ha fronteggiato adeguatamente gran parte dei casi esistenti, senza condurre a quel peggioramento clinico che di fatto obbligava al successivo ricovero.
Come ha osservato la Corte dei conti, “se aveva sicuramente una sua giustificazione a tutela della salute dei cittadini la concentrazione delle cure ospedaliere in grandi strutture specializzate riducendo quelle minori che, per numero di casi e per disponibilità di tecnologie, non garantivano adeguati risultati di cura, la mancanza di un efficace sistema di assistenza sul territorio ha lasciato la popolazione senza protezioni adeguate.
Se fino ad ora tali carenze si erano scaricate non senza problemi sulle famiglie, contando sulle risorse economiche private e su una assistenza spesso basata su manodopera con bassa qualificazione sociosanitaria (badanti), finendo per incidere sul particolare individuale, esse hanno finito per rappresentare una debolezza anche dal punto di vista della difesa complessiva del sistema quando si è presentata una sfida nuova e sconosciuta”.
A giudizio della Corte, è infatti “sempre più evidente che una adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto”.
Una attenzione a questi temi si è vista nell’ultima legge di bilancio con la previsione di fondi per l’acquisto di attrezzature per gli ambulatori di medicina generale, “ma essa dovrà essere comunque implementata superata la crisi, così come risorse saranno necessarie per gli investimenti diretti a riportare le strutture sanitarie ad efficienza”.
Link a Corte dei conti, Rapporto coordinamento finanza pubblica 2020 https://www.corteconti.it/Download?id=9e8923ba-4ef4-480e-90f0-ef307c3fa756 pagina 25
La medicina territoriale – come rafforzarla
La debolezza strutturale della medicina territoriale e la persistenza di un vincolo finanziario tuttora molto incisivo e che non appare destinato ad attenuarsi in tempi ragionevolmente brevi suggeriscono di individuare e sviluppare soluzioni innovative che consentano, utilizzando in modo più efficiente le risorse disponibili, di offrire servizi di più elevata qualità, fermo restando il limite delle risorse.
Una delle più promettenti possibilità che si presentano all’attenzione del decisore politico è rappresentata dall’introduzione e dallo sviluppo della Telemedicina che, innestando le moderne tecnologie informatiche e di comunicazione sulle tradizionali attività dell’arte medica, potrebbe offrire importanti opportunità e benefici per una più adeguata cura a livello territoriale del paziente, in particolare di quello con fragilità, disabilità, cronico o con pluri-patologie.
Un servizio migliore che dovrebbe tradursi anche in minori tassi di ospedalizzazione e conseguente liberazione di risorse in favore dei soggetti che all’ospedale devono comunque accedere.
Ora vedremo cosa è la telemedicina, come è disciplinata, la situazione in Italia e i vantaggi e i limiti di questa tecnica.
Telemedicina: definizione e ambiti di applicazione
La telemedicina è definita come l’insieme di tecniche mediche ed informatiche che permettono la cura di un paziente a distanza o più in generale di fornire servizi sanitari da remoto.
Centrale, rappresentandone l’essenza, garantita dallo strumento informatico, è il concetto di “cura a distanza”, ovvero la possibilità di effettuare di fatto visite da remoto, nella sostanza sovrapponibili per qualità a gran parte della pratica clinica ordinariamente svolta, soprattutto in presenza di limitazioni dettate dal numero di prestazioni da eseguire, dalle distanze da coprire, dal tempo a disposizione.
Se per le fasi acute o la riacutizzazione di alcune patologie resta imprescindibile l’esame clinico diretto, in altre situazioni, anche acute, o nella gestione e nel controllo del quadro clinico del paziente cronico o disabile, magari con pluri-patologie o con problemi di trasporto o deambulazione, la telemedicina può consentire un efficace e tempestivo controllo a distanza non meno appropriato e valido di quello offerto dalla visita personale, anche attraverso un colloquio audio-video tra medico e paziente.
Si pensi al monitoraggio della glicemia in soggetti diabetici, della pressione in ipertesi, della frequenza cardiaca in anziani con fibrillazione atriale ecc., al supporto psicoterapeutico o al consulto psichiatrico o nutrizionale, al controllo delle varie fasi di una gravidanza, in generale alla gestione, anche multidisciplinare, delle malattie croniche che richiedono un’assistenza prolungata, un’attenta compliance da parte del paziente e una correzione tempestiva ed accurata delle terapie.
Ancora, si apre la possibilità di una rapida trasmissione e presa in carico di documenti, referti e diagnosi, con feedback verso il paziente, anche attraverso la correzione della terapia.
I vantaggi della telemedicina
Da quanto detto si intuiscono le potenzialità di uno strumento che consente di fronteggiare in modo più pronto ed efficace l’evoluzione sanitaria di una popolazione che soffre in modo crescente di disturbi cronici e necessita di controlli rapidi e non necessariamente caratterizzati dalla completezza della visita diretta e personale, che resta presidio ineludibile per i casi acuti o più impegnativi e che proprio l’alleggerimento consentito dalla telemedicina consente di potenziare per coloro che ne hanno veramente bisogno.
Proprio l’emergenza COVID è stata un esempio, tragico ed emblematico della necessità di questo adeguamento sistemico.
Con un diffuso apparato di telemedicina. Infatti, l’emergenza sarebbe emersa prima perché i casi di polmoniti atipiche rilevati sul territorio già in gennaio sarebbero stati registrati a livello centrale con un sistema di telemedicina operativo e ben strutturato ed una reazione più rapida avrebbe salvato migliaia di vite.
La telemedicina avrebbe offerto la possibilità di gestire efficacemente i pazienti al loro domicilio, fornendo cure appropriate al caso specifico con valutazione dei più rilevanti parametri clinici, mentre i triage telefonici effettuati hanno portato alla semplice alternativa fra una gestione passiva e il ricovero ospedaliero.
L’esempio dell’ecografia toracica, eseguibile anche a casa con un dispositivo collegabile via smartphone e sensibile ad eventuali peggioramenti del quadro clinico polmonare sta a dimostrarlo.
Infine, la telemedicina, si sarebbe potuto attuare il coinvolgimento di medici di altre regioni per la gestione dei focolai più critici come Lodi, Bergamo, Brescia, in modo da alleggerire il peso sui medici locali.
Non va dimenticato che l’alternativa, da un punto di vista clinico, sarebbe, a rigore, soltanto la visita, anche specialistica, a domicilio del paziente, con evidente aggravio dei costi e di fatto irrealizzabile persistendo gli attuali vincoli di bilancio.
Attualmente non esiste una vera e propria normativa specifica in materia di telemedicina. I servizi esistenti si conformano alla normativa sanitaria preesistente e a quella sulla protezione della privacy e dei dati sensibili.
Esistono comunque delle linee guida pubblicate dal Ministero della Salute, che ne definiscono finalità e ambiti, rilevandone l’utilità soprattutto nella gestione della cronicità, nell’assistenza in diverse patologie, nella gestione tempestiva delle urgenze, nella riorganizzazione della diagnostica con particolare riferimento al teleconsulto (la cosiddetta second opinion in cui un medico trasmette gli esami di un paziente a un collega per un’opinione di controllo).
La telemedicina in Italia conta molteplici esperienze su tutto il territorio nazionale, tanto che il Ministero ha istituito già nel 2007 un Osservatorio Nazionale con la finalità di mappare e uniformare le reti di telemedicina presenti sul Paese e stimolare la diffusione e condivisione di best practice e modelli di riferimento.
Perché le migliori pratiche divengano “ordinarie” pratiche è però necessaria una regia nazionale e competente: serve un piano nazionale per la telemedicina.
Occorre vincere le (residue) criticità al cambiamento e guardare gli ormai numerosi esempi virtuosi.
Si pensi al caso del CIRM, Centro Internazionale Radio Medico fondato nel 1934 e che fu presieduto da Guglielmo Marconi, che fa telemedicina da 86 anni per i marittimi.
Occorre poi guardare agli sviluppi futuri
- >> Cnoga MTX, una sorta di pulsossimetro che rileva anche i parametri dell’emogasanalisi
- >> App chiamata Binah per il monitoraggio dei parametri dei pazienti solo facendo un selfie
- >> smart monitoring per proteggere gli operatori sanitari negli ospedali, attraverso tecnologie che evitano i continui contatti con i pazienti.
Tuttavia, le esperienze in atto risultano ancora limitate se paragonate alla diffusione della telemedicina negli altri paesi europei: dunque per il futuro si presentano notevoli margini di diffusione di una pratica che, affidata a mani professionali e utilizzata correttamente, può contribuire in modo significativo a migliorare la qualità della vita delle persone, senza impatti strutturali in termini di risorse utilizzate, una volta impiantata l’infrastruttura tecnologica necessaria.
Le cause della insufficiente diffusione della telemedicina sono sintetizzabili come segue:
- Problema della scarsa alfabetizzazione digitale tra i medici e gli operatori sanitari
- Problema finanziario degli investimenti iniziali
- Percezione degli strumenti di procurement come ostacolo alla digitalizzazione, invece che volano per l’innovazione, per la sua struttura rigida e soprattutto per la mancata conoscenza degli strumenti con cui comprare tecnologie digitali
- Problema della rimborsabilità > in gran parte falso problema > televisita e telerefertazione possono già essere rimborsate essendo nei LEA
La spesa per la sanità digitale nel 2019 è infatti cresciuta del 7%, attestandosi su 1,39 miliardi, concentrati soprattutto su cartelle cliniche elettroniche, sistemi dipartimentali e intelligenza artificiale. Se si pensa solo che studi standardizzati mostrano con la telemedicina riduzione dell’accesso agli ospedali, dei ricoveri e delle giornate di degenza anche del 25%, si pone l’impellente necessità di trasformare questi risparmi potenziali in risparmi effettivi attraverso una riorganizzazione della rete ospedaliera e assistenziale che consenta di incidere sui costi fissi.
Una politica d’investimento, anche eventualmente sostenuto dal prestito MES (prescindendo in questa sede da ogni altra considerazione di merito politico); ove l’Italia decidesse di ricorrervi, proprio attesa la sua natura di prestito una tantum ed indirizzato alle spese connesse all’emergenza sanitaria, appare uno strumento che potrebbe aiutare a conciliare le esigenze dell’erario con la crescente domanda di salute dei cittadini. La telemedicina può così diventare il perno di una ridefinizione strutturale e organizzativa della rete dei servizi, nell’ottica della loro razionalizzazione ed integrazione, nonché dello spostamento dei servizi da strutture cliniche al territorio.
Il pregio di un servizio clinico assicurato con continuità, con un alto livello di qualità, paragonabile nella maggior parte dei casi alla prestazione medica ordinaria, con una possibilità di accesso certamente agevole anche per i soggetti fragili che hanno difficoltà negli spostamenti, con una conseguente maggiore equità di accesso alle cure, andrebbe valorizzato mirando ad introdurre e a potenziare la Telemedicina.