Occorre in tutta franchezza essere sinceri: uno dei motivi per cui l’Italia si trova nell’ativica condizione di essere inseguitore anziché guida è anche l’incapacità di produrre una classe manageriale in grado di leggere le sfide del presente e del futuro per poter mettere in campo le migliori soluzioni possibili.
Di Alessandro Conte
La versatilità, la capacità di entrare subito in partita e il problem solving sono proprie del nostro saper fare. Il vero punto è che questo non è più sufficiente, se non altro perché occorre allargare lo sguardo ai prossimi 15-20 anni. Siamo bravi – o quanto meno alla fine ci riusciamo – a rimboccarci le maniche ma siamo incapaci di ragionare sul lungo periodo. Più in particolare sfugge che la classe politica e imprenditoriale del 2040 saranno i ragazzi che oggi frequentano le scuole secondarie, dai licei agli Istituti tecnici, e le matricole universitarie.
Il nodo centrale resta quindi quello delle competenze e, in questo senso, la trasformazione digitale ha imposto un radicale cambiamento del paradigma. Oggi quel sistema di formazione verticale, specialistico e tipico della società del secolo scorso non è più attuabile: le mansioni, i ruoli, i corsi di aggiornamento sono retaggio di un mondo che non c’è più, o quanto meno che è profondamente cambiato.
Il contesto attuale impone di essere sempre pronti ad assorbire, ad imparare il nuovo e a dotarsi un complesso sistema di competenze “hard” e “soft” – verticali e orizzontali – dove la componente digitale è fondamentale. Lo sviluppo della tecnologia – perennemente on-going, per usare termini attuali – richiede anche la predisposizione a continuare ad apprendere anche dopo il ciclo di studi e di sviluppare le proprie conoscenze durante tutta la propria carriera lavorativa.
A questa condizione vanno aggiunte anche ulteriori sofferenze sostanziali che riguardano il nostro Paese. Secondo le ultime stime europee, siamo fra i Paesi con il livello più basso di adulti che partecipano ad attività di formazione e training: solo il 41,5% del totale, contro il 52,1% del Regno Unito, il 52% della Germania, il 51,3% della Francia e una media europea del 45,2%.
Al tempo stesso le nostre imprese sono quelle che offrono meno possibilità di crescita e formazione ai propri dipendenti. Il dato più allarmante riguarda le medie (82,5% in Italia vs. 88,3% in media in UE) e soprattutto le piccole (57,1% in Italia vs. 74,9% in media in UE).
La situazione peggiora ancora se passiamo poi ad analizzare il basso livello di competenze digitali in possesso della popolazione.
I laureati italiani STEM sono in media 13,5 per mille abitanti tra i 20 e i 20 anni, a fronte di una media europea di 19,1 e valori che per Francia, Germania e Regno Unito si attestano rispettivamente a 21,4, 20,5 e 22,1. Se poi vogliamo fare il raffronto con Paesi di “rango” inferiore, ci vediamo superati anche dalla Spagna con 21,6.
Se si prende in considerazione poi il livello basilare di competenze digitali, ci ritroviamo appena sopra Polonia, Bulgaria e Romania: solo il 22% della popolazione, tra i 16 e i 74 anni di età, mastica l’acbd digitale.
A queste difficoltà di base, va sommato anche il difficile passaggio dell’inserimento delle competenze nel mondo del lavoro.
L’interessante European Skill Index elaborato dalla Commissione Europea misura l’efficacia di un sistema formativo nel costruire le competenze necessarie al mondo del lavoro e di favorirne un soddisfacente inserimento nello stesso. L’ultima rilevazione disponibile pone l’Italia all’ultimo posto in Europa con un punteggio di 23,9/100.
Le conclusioni che si possono trarre vanno nella direzione di una presa d’atto che il sistema formativo, cosi com’è stato concepito lo scorso secolo e rattoppato qua e là nel corso degli anni, è ormai antiquato, non al passo con i tempi.
La prima necessità dell’Italia è un netto cambio di rotta per tornare a “sfornare” talenti con le competenze che il mondo d’oggi richiede. Appare pertanto ormai prioritario sviluppare un vero piano per lo sviluppo di competenze digitali che venga implementato sia all’interno di ogni grado del sistema educativo quanto all’interno delle aziende.
In questo scenario un ruolo focale può essere svolto anche dal privato – che ha tutto l’interesse ad attingere a un bacino di risorse adeguatamente preparate per aumentare la competitività sui mercati.
Questo può integrare l’offerta educativa, che ha comunque bisogno di essere rinnovata e sburocratizzata, sia con percorsi di specializzazione per gli studenti che mettendo a disposizione le professionalità di cui dispone a vantaggio di un approccio più pragmatico e concreto della formazione.
Può essere un piccolo passo, ma occorre pur farlo perché necessario.