Si discute di seguito il tema della concessione dei buoni pasto ai dipendenti della P.A. posti in smart working per legge dall’art. 87 del D.L. 17 marzo 2020, n. 18 e, poi, dai provvedimenti attuativi conseguenti.
Di Riccardo Fratini
Com’è noto, il lavoro agile è la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle pubbliche amministrazioni. Solo qualora non fosse possibile ricorrere al lavoro agile, per i periodi di assenza dal servizio dei dipendenti delle amministrazioni imposti dai provvedimenti di contenimento del fenomeno epidemiologico da COVID-19, le amministrazioni datrici di lavoro sono chiamate ad utilizzare gli strumenti delle ferie pregresse, del congedo, della banca ore, della rotazione e di altri analoghi istituti, nel rispetto della contrattazione collettiva, ovvero, in ultima analisi, motivatamente esentare il personale dipendente dal servizio e, in quest’ultimo caso, non corrispondere l’indennità sostitutiva di mensa, ove prevista.
Si dovrebbe ritenere comunque incompatibile con il lavoro agile la corresponsione dei buoni pasto, affermando che i CCNL di comparto subordinano la fruizione a determinati requisiti di durata giornaliera della prestazione ed al fatto che il lavoratore consumi il pasto al di fuori dell’orario di servizio, che non sussistono nel lavoro agile, in quanto il lavoratore è libero di organizzare come meglio crede la prestazione sotto il profilo della collocazione temporale.
INDENNITÀ SOSTITUTIVA DI MENSA E BUONO PASTO
La questione della natura giuridica dell’incidenza del servizio di mensa, infatti, non è nuova ed, anzi, ha origine addirittura negli anni ’50, quando trovava una prima sistemazione nell’accordo interconfederale del 20 aprile 1956, secondo cui, in assenza di un preciso quadro normativo di riferimento, il valore reale della mensa non doveva essere considerato retribuzione valevole ai fini del calcolo degli istituti differiti, ma soltanto la c.d. indennità sostitutiva della mensa che l’accordo istituiva e concedeva.
Così, anche nelle decisioni giurisprudenziali veniva accolta la tesi secondo cui la mensa non è retribuzione qualora non sia prevista un’indennità sostitutiva, perché si tratta di un’erogazione «facoltativa» il cui effettivo utilizzo è lasciato alla libera scelta del lavoratore e non già di un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa.
Così, in difetto dell’indennità di mensa, i pasti aziendali non erano corrispettivi delle prestazioni lavorative, in quanto sono condizionate da un comportamento facoltativo dei dipendenti e trovano nelle prestazioni medesime mere occasioni» e, in caso contrario, quando cioè in una data azienda sia corrisposta l’indennità sostitutiva è il solo importo dell’indennità, fissato convenzionalmente, a dover essere computato negli istituti indiretti, trattandosi di una somma corrisposta con caratteri di obbligatorietà e continuatività.
In definitiva, il principio basilare che reggeva il sistema si poteva riassumere nella massima: «la natura retributiva (della mensa) viene meno qualora la libertà di utilizzazione della mensa non sia collegata alla previsione di un’indennità sostitutiva» .
Quanto alla posizione nell’ambito del sinallagma contrattuale si sostiene che, qualora la fruizione della mensa sia strettamente condizionata alla volontà-possibilità del lavoratore di beneficiarne in concreto, essa non può ritenersi correlata in modo indissolubile alla prestazione di lavoro.
Vale a dire che se è retribuzione ciò che è comunque dovuto a fronte di prestazione lavorativa il fatto che la mensa possa essere, per scelta del lavoratore, non usufruita fa venir meno in radice la possibilità di una sua qualificazione in termini di controprestazione retributiva.
Con l’arrivo dei buoni pasto e delle detrazioni fiscali e contributive ad esso connesse, la fattispecie veniva definitivamente inquadrata fuori dal sinallagma contrattuale, affermando definitivamente il principio secondo cui il valore dei pasti, di cui il lavoratore può fruire mediante i buoni pasto, non rappresenta un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa e non costituisce elemento integrativo della retribuzione, mancando una corrispettività tra l’utilizzazione dei buoni pasto e il lavoro prestato, ma una agevolazione di carattere assistenziale .
Ne derivava che il buono pasto costituisce una agevolazione assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale e diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio.
Non integra, quindi, un elemento della retribuzione “normale” e non è riconoscibile come obbligatorio se non ricorrano i presupposti individuati dalla contrattazione collettiva (orario settimanale minimo, articolazione su un numero determinato giorni alla settimana, turnazioni, o numero di orario ordinario superiore ad un minimo per le singole giornate lavorative).
Quindi, il buono pasto non sarebbe dovuto laddove la prestazione lavorativa risulti sospesa o non resa secondo queste caratteristiche, come ad esempio nel caso di distacco sindacale.
A sostegno della natura non retributiva del buono pasto, peraltro, viene incontro anche la disciplina fiscale ad esso connessa, che ne riconosce il parziale esonero dal concorso alla formazione del reddito, pur presenza di ben determinati requisiti.
I BUONI PASTO NEL PUBBLICO IMPIEGO
Dalla natura assistenziale e non retributiva del buono pasto, in assenza dei requisiti previsti dettagliatamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva, deriva che il lavoratore difficilmente potrebbe rivendicarne l’equivalente in termini di retribuzione.
Nel pubblico impiego contrattualizzato, in particolare, l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e tale effettuazione, a sua volta presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva (art. 8, D.Lgs. 66/2003).
Ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che non prestino servizio in sede, come nel caso dei lavoratori destinatari delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (D.Lgs. 151/2001) che osservano in concreto un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore.
Infatti, con riguardo ai buoni pasto, non può valere l’equiparazione dei periodi di riposo alle ore lavorative, dato che la legge precisa che la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro” (art. 39, c. 1, D.Lgs. 151/2001). L’attribuzione dei buoni pasto non riguarda né la durata né la retribuzione del lavoro essendo finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla P.A. per le suindicate finalità con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire agli interessati il recupero delle proprie energie psico-fisiche .
Posti questi principi, di fonte legale e soprattutto giurisprudenziale, appare chiaro, quindi, che vi è un rapporto diretto tra potere del datore di lavoro di scegliere il decidere orario e durata della prestazione ed il diritto alla fruizione del buono pasto da parte del lavoratore.
Agevola la comprensione di questo rapporto l’ipotesi estrema, nella quale il datore di lavoro, anche pubblico, decida di non concedere affatto il riposo della pausa pranzo al lavoratore e, anche in quel caso, non sia obbligato a corrispondere il buono pasto, ma solo la retribuzione da lavoro straordinario .
Così il datore può scegliere se far lavorare il lavoratore a pranzo e pagargli la retribuzione o lasciarlo riposare e concedergli solo il buono pasto come misura assistenziale.
Nel lavoro agile, tuttavia, ritorna a rilevare quell’elemento di volontarietà della fruizione della mensa e di discrezionalità, a cui dava valore la giurisprudenza agli albori del dibattito e che ora è stato ripreso dal decreto del Tribunale di Venezia. Infatti, nel lavoro agile, il lavoratore può agilmente sospendere a suo piacimento il lavoro disconnettendosi, come è suo diritto (art. 19, c. 1, d.lgs. 81/2017) e così fruire della pausa quando e quanto vuole, purché assicuri, nell’arco della giornata, il raggiungimento degli obiettivi fissati dal datore, senza venir meno ai propri compiti.
Viene meno così ogni interesse «egoistico» del datore di lavoro alla predisposizione del pasto aziendale che sia fruibile in modo celere e vicino all’impresa, volto alla ripresa pronta ed «aggregata» dall’attività lavorativa dopo la pausa, affiancando una finalità di tipo assistenziale ad una sorta di rimborso spese dovuto alla presenza del lavoratore in azienda.
L’attività del lavoratore agile inizia, si interrompe e riprende secondo un ritmo più libero per il lavoratore ed il datore, soprattutto nel contesto dell’emergenza dove non ha potuto porre dei limiti chiari nel contratto individuale originariamente previsto dal d.lgs. 81/2017, non può farci molto.
Non si può, quindi, non condividere la determinazione contenuta nel decreto nella parte in cui afferma che l’incompatibilità tra il lavoro agile e i buoni pasto non è di certo esclusa dal solo silenzio del legislatore sul punto.
LE CIRCOLARI DELLA FUNZIONE PUBBLICA
Le circolari della funzione pubblica in materia , infatti, si sono orientate allo stesso modo nel senso di negare l’automaticità del riconoscimento dei buoni pasto ai lavoratori in smart working ed invitando soltanto, sul punto, le PP.AA. ad assumere «le determinazioni di competenza in materia, previo confronto con le organizzazioni sindacali».
Anche su questo, bisogna condividere la statuizione del Tribunale di Venezia, che ragionevolmente ha concepito l’indicazione della circolare come un invito ad una buona pratica per le amministrazioni che decidessero di non corrisponderli a procedere ad un confronto sul punto con i sindacati, ma tale invito non ha certo valore vincolante, soprattutto per le amministrazioni non direttamente subordinate al Ministero scrivente in sede gerarchica.
La mancata corresponsione dei buoni pasto, peraltro, sembra essere già essere data per assodata dalla prassi regolamentare e amministrativa. Ad esempio, sono già state deliberate le variazioni di spesa per effetto del lockdown, in quanto “è stata considerata una potenziale riduzione di spesa derivante dal risparmio dovuto alla contrazione degli oneri legati agli straordinari per il personale, alla mancata erogazione dei buoni pasto e alla parziale riduzione dei costi di struttura” .
Appare, invece, arbitraria l’affermazione che il confronto, qualora si fosse svolto, non avrebbe potuto portare ad un esito diverso, in quanto ovviamente il datore di lavoro poteva procedere alla consultazione al fine di bilanciare i vari aspetti problematici dei lavoratori in questo periodo e, di conseguenza, risolversi ad agire, se non su questo su altro, in modo differente, considerando nella trattativa anche l’aspetto della sottrazione dei buoni pasto.