di Renato Loiero
Consigliere parlamentare, le opinioni sono espresse a titolo strettamente personale
L’Italia e la globalizzazione
Il vero “tallone di Achille” dell’economia italiana è la scarsa crescita registrata negli ultimi vent’anni. Nel ventennio 1999-2019 l’economia italiana è cresciuta in media circa del 7,9%, mentre la Spagna è cresciuta del 43%. Come riprendere il percorso di crescita nei prossimi due anni? Il nostro ritardo deriva dalla scarsa dinamicità della produttività totale dei fattori, dovuta soprattutto al basso livello di concorrenza. Il nostro sistema produttivo, specialmente delle piccole e medie imprese del centro-nord, riesce molto efficacemente a competere sui mercati internazionali. Tuttavia, nei mercati protetti dalla concorrenza internazionale il livello di produttività, che determina poi il livello medio di produttività, invece, stagna da tanti anni. Le determinanti sono quanto mai complesse. La più importante, che va citata perché su di essa si innesta, appunto, quel 20% rispetto agli obiettivi di intervento del Pnrr, è sicuramente la scarsa penetrazione delle ICT in tutti i processi produttivi, sia quelli pubblici che quelli privati. Su questo punto il Pnrr investe quasi il 20 per cento delle risorse: digitalizzazione della pubblica amministrazione.
Aggiungo che si parla molto di PNRR e forse meno di tutto il complesso di Fondi europei che costituiscono nel loro insieme una forma importantissima di supporto per l’economia. L’Italia non brilla nel loro utilizzo o quanto meno la progettualità è distribuita sul territorio a macchia di leopardo. Occorre personale competente e velocizzazione delle procedure anche nei comuni più piccoli e decentrati.
- La congiuntura e la visione della Ue sull’economia italiana
L’economia italiana è pienamente ed indissolubilmente inserita nel contesto continentale. Inoltre, la governance di finanza pubblica è allo stesso tempo inserita nel quadro delle regole europee.
Il 23 maggio 2022 la Commissione europea ha pubblicato le Comunicazioni (COM (2022) 600 final)[1] nell’ambito del “pacchetto di primavera” del Semestre Europeo. Quest’anno, l’attenzione è focalizzata su due aspetti principali: la ripresa economica nella fase di uscita dalla pandemia da Covid-19, con il ruolo fondamentale del Recovery and Resilience Facility (RRF), e l’emergenza umanitaria ed energetica causata dall’attacco Russo all’Ucraina. Da un lato, la pandemia mostra finalmente il suo definitivo affievolimento e la maggior parte delle misure restrittive implementate negli ultimi due anni nei vari Stati sono state abolite. Dall’altro, lo scenario bellico in Ucraina proietta luci inquietanti sul futuro, data la forte dipendenza degli Stati europei dalla Russia in termini di materie prime e combustibili fossili, in un quadro già preesistente di robusta inflazione. Il piano RePowerEU è lo strumento che l’UE metterà in campo per ridurre questa dipendenza energetica, per un nuovo Green Deal europeo, da implementare entro il 2030, che sarà focalizzato sulla decarbonizzazione e sul pieno impiego del potenziale europeo nelle energie rinnovabili.
Secondo le ultime previsioni di primavera della Commissione UE, l’economia europea proseguirà su un sentiero di crescita nel 2022 (+2,7% per il PIL) e nel 2023 (+2,3%), anche se numerose incertezze permangono, legate alle pressioni inflazionistiche e agli ostacoli nelle catene della distribuzione internazionale. In questa fase, la resilienza dell’economia europea è messa a dura prova, per cui sono fondamentali il ruolo della governance continentale e l’implementazione delle riforme richieste. Il 27 aprile 2022, l’Italia ha presentato il suo Programma Nazionale di Riforma 2022 ed il suo Programma di Stabilità 2022, in linea con la dead line stabilita nell’articolo 4 della Regulation (EC) n.1466/97. I due Programmi sono stati valutati insieme e, coerentemente con l’art. 27 della Regulation (EU) 2021/241, il Programma Nazionale di Riforma ripercorre i progressi fatti dall’Italia nell’implementazione del RRF.
Il 23 maggio 2022[2], la Commissione ha pubblicato il Country Report sull’Italia, in cui si valutano i progressi dell’Italia nel rispondere alle Raccomandazioni specifiche formulate dal Consiglio nel 2019, 2020 e 2021. Sulla base di questa valutazione la Commissione ha concluso che l’Italia ha ancora degli eccessivi squilibri macroeconomici, in particolare per un alto debito pubblico ed una bassa produttività, in un contesto di fragilità del mercato del lavoro e di debolezza nel settore finanziario. Il 23 maggio 2022 la Commissione ha pubblicato una relazione ai sensi dell’articolo 126, paragrafo 3, TFEU, al fine di discutere la situazione di bilancio dell’Italia, dal momento che il deficit/PIL dell’Italia si è attestato al 7,2% nel 2021 e il rapporto debito/PIL è al 150,8%. Sulla base di questi dati, la Commissione ha rilevato che i criteri di debito e deficit non erano soddisfatti. A causa della delicata fase, la Commissione non ha ritenuto di proporre una procedura di infrazione per la primavera del 2022 ma si riserverà di decidere nel prossimo autunno. Secondo le stime del Programma di stabilità 2022, il rapporto deficit/PIL si attesterà al 5,6% nel 2022 e al 3,9% nel 2023. Invece il rapporto debito/PIL è previsto dal governo italiano al 147% nel 2022 e al 145,2% nel 2023.
In questo contesto, il documento presentato dalla Commissione è dedicato specificamente alla analisi approfondita della situazione economica italiana. Le principali osservazioni riguardano:
- Le previsioni di crescita del PIL sono del 2,4% nel 2022 e dell’1,9% nel 2023, principalmente dovute ad un approccio più prudente riguardante la domanda interna.
- Il rapporto debito/PIL si prevede al 147,9% nel 2022 e 146,8% nel 2023. La differenza tra questa stima e quella del governo italiano è dovuta alla diversa previsione sul PIL.
- Il rapporto deficit/PIL si prevede al 5,5% nel 2022 e al 4,3% nel 2023
- Il PIL potenziale di medio termine è stimato allo 0,4%, senza tenere conto delle riforme legate al RRF.
- L’ Italia è altamente dipendente dalle importazioni energetiche dalla Russia, con il 43% del suo gas importato, leggermente al di sotto della media europea del 44%. Inoltre la dipendenza dal petrolio Russo è all’11%, più bassa della media europea del 26%.
Le raccomandazioni specificamente indirizzate all’Italia sono le seguenti:
- Adozione di una politica fiscale prudente nel 2023. L’Italia deve limitare la crescita della spesa pubblica corrente al di sotto della crescita potenziale di medio termine, non trascurando di assicurare supporto alle famiglie e alle imprese più colpite dall’aumento dell’inflazione e ai rifugiati dall’Ucraina. Inoltre, deve aumentare l’investimento pubblico per la transizione verde e digitale, utilizzando i fondi europei, compresi l’RRF e il RePowerEU. Dopo il 2023 dovrà perseguire una politica fiscale prudente, finalizzata alla riduzione del debito pubblico ed all’implementazione di investimenti e riforme. Per ridurre ulteriormente il carico fiscale sul lavoro ed aumentare l’efficienza del sistema l’Italia deve adottare una riforma fiscale tramite la revisione delle aliquote marginali, l’adeguamento dei valori catastali agli attuali valori di mercato e l’eliminazione dei sussidi nocivi all’ambiente, nel quadro di una semplificazione del sistema fiscale.
- La prosecuzione dell’implementazione del RRF. L’Italia deve recepire le direttive e gli obiettivi inclusi nel Council Implementing Decision del 13 luglio 2021 e finalizzare rapidamente i negoziati con la Commissione per la Programmazione delle politiche di coesione 2021-2027, nell’ottica della loro implementazione.
- La riduzione della dipendenza dai combustibili fossili e la diversificazione nell’import dell’energia. L’Italia deve incrementare la capacità distributiva interna del gas, rimuovendo i colli di bottiglia. Deve inoltre sviluppare le interconnessioni elettriche, accelerare il processo di dispiegamento di ulteriori impianti per l’energia rinnovabile e adottare misure volte ad incrementare l’efficienza energetica e promuovere la mobilità sostenibile.
- Il futuro della governance europea
Le trasformazioni introdotte nell’architettura della governance economica europea durante la pandemia hanno rappresentato una accelerazione repentina verso un “cambio di paradigma” per l’UEM che era già in corso di discussione. Per quanto la maggior parte delle misure prese per affrontare la pandemia siano formalmente disegnate per essere temporanee, non sembra possibile che, una volta cessata la emergenza e la applicazione della general escape clause, si possa ritornare allo status quo ante la crisi sanitaria. NGEU, SURE e le altre misure appaiono destinate a diventare il nuovo stato di fatto per l’UE. Gli strumenti eccezionali messi in campo prefigurano dei rimedi alla asimmetria originaria dell’UE, dotando l’architettura della governance economica europea di una vera e propria fiscal capacity comune e ad un “ministro delle finanze della UE” che si affianchi, completando la costruzione, alla BCE. Tuttavia, tale sviluppo richiede anche alcuni aggiustamenti costituzionali per l’UE, che dovrebbero essere al centro della nascitura Conferenza sul Futuro dell’Europa.
A livello concettuale, è chiaro che sia la stabilità dei prezzi che la stabilità macroeconomica richiedono contemporaneamente che le posizioni di bilancio siano sostenibili e che la politica di bilancio operi in modo anticiclico. Negli ultimi vent’anni, l’andamento macroeconomico dell’area euro ha risentito sia di episodi di problemi di sostenibilità fiscale in alcuni paesi membri, sia di prociclicità fiscale (sia in congiuntura positiva che negativa). Naturalmente, sostenibilità fiscale e anticiclicità fiscale sono interconnesse: non è possibile rispondere in modo anticiclico a uno shock recessivo se viene messa in discussione la sostenibilità del debito. A sua volta, la sostenibilità del debito richiede l’impegno ad agire in modo anticiclico anche durante i periodi di forte andamento economico, riducendo il rapporto debito/PIL e costruendo riserve di bilancio. La natura prociclica della politica di bilancio nell’area dell’euro durante le fasi sostanziali dei primi due decenni dell’euro (pre-pandemia) è chiaramente evidente nel grafico 1.
Grafico 1 Posizione di bilancio aggregata dell’area dell’euro, output gap, inflazione e saldo delle partite correnti
(percentuali del PIL)
Un quadro del PSC efficiente può dare un contributo importante ai risultati macroeconomici dell’area dell’euro. In particolare, il controfattuale di un completo decentramento della politica fiscale non è auspicabile da una prospettiva a livello di area euro. In particolare, è improbabile che i responsabili delle politiche nazionali internalizzino le implicazioni delle loro decisioni per l’orientamento di bilancio aggregato dell’area dell’euro e tengano pienamente conto degli effetti di ricaduta della loro politica interna sugli altri paesi membri di un’unione monetaria. In particolare, si verificano effetti di ricaduta negativi se un paese membro ha una posizione di bilancio insostenibile, adotta una politica di bilancio prociclica o riduce la produzione potenziale attraverso politiche strutturali contrarie alla crescita. Inoltre, la valutazione continua dell’adeguatezza delle politiche fiscali nazionali facilita anche l’efficace funzionamento del meccanismo europeo di stabilità (MES), soprattutto in scenari in cui lo stress fiscale potrebbe manifestarsi improvvisamente a causa di shock macrofinanziari su larga scala. In un ambiente in cui le banche centrali devono ricorrere a programmi di acquisto di attività al fine di garantire un orientamento di politica monetaria appropriato in prossimità del limite inferiore effettivo, tali programmi possono funzionare più agevolmente se esiste un quadro fiscale efficace e trasparente per sostenere contemporaneamente il bilancio sostenibilità in ciascuno Stato membro e un orientamento di bilancio appropriato per la zona euro.
La pandemia ha aggravato un’agenda fiscale già difficile. Tutti i paesi membri devono affrontare le implicazioni macroeconomiche e di finanza pubblica delle società che invecchiano. Inoltre, un PSC efficiente deve anche tenere conto del fatto che l’Europa non può ignorare o ritardare la necessità della transizione verde e della trasformazione digitale. Ciò implica notevoli sforzi di investimento pubblico anche al di là dell’orizzonte del NGEU
In relazione alla stabilizzazione macroeconomica, la politica fiscale anticiclica è particolarmente importante come strumento di stabilizzazione anticiclica se la politica monetaria è vincolata dal limite inferiore effettivo sui tassi di interesse nominali.
La politica di bilancio anticiclica richiede un’azione determinata durante le grandi recessioni, ma richiede anche la ricostruzione di ammortizzatori una volta che l’economia è tornata in una fase ciclica migliore, in modo da garantire la sostenibilità del debito e consentire alla politica di bilancio di rispondere anche ai successivi shock negativi. Inoltre, va notato che mentre l’espansione fiscale durante una recessione dovrebbe avere un significativo effetto moltiplicatore (specialmente se il limite inferiore effettivo è un vincolo), l’impatto moltiplicatore di un’espansione fiscale durante una fase di forte performance economica è probabilmente molto più tenui, con effetti di spiazzamento amplificati dalla probabile necessità di inasprire la politica monetaria se l’espansione fiscale prociclica rappresentasse una minaccia per l’obiettivo di inflazione del due per cento.
In relazione alla sostenibilità di bilancio, tassi di interesse medi più bassi hanno ridotto significativamente i costi per il servizio del debito, da quasi il 4% del PIL all’inizio dell’Unione economica e monetaria a circa l’1,5 per cento del PIL nel 2020 (il c.d. dividendo dell’euro). Sebbene costi di servizio del debito più bassi creino sicuramente uno spazio di bilancio aggiuntivo in misura significativa, un trattamento completo delle implicazioni per una politica fiscale ottimale dovrebbe tenere conto delle determinanti causali dei bassi tassi di interesse reali di equilibrio. In particolare, i contributi della minore crescita tendenziale della produttività e delle tendenze demografiche al calo dei tassi di interesse hanno implicazioni fiscali diverse rispetto ad altre fonti di tassi bassi.
Una riforma del patto di stabilità e crescita dovrebbe affrontarne i principali punti deboli al fine di sostenere il conseguimento del duplice obiettivo di stabilizzazione macroeconomica e sostenibilità di bilancio.
Come proposto dall’European Fiscal Board e da altri contributori, un quadro semplificato a due livelli che consiste in una regola di spesa collegata a un ancoraggio del debito ridurrebbe la complessità delle regole di bilancio e allineerebbe meglio la stabilizzazione di bilancio con le sfide della sostenibilità di bilancio. In termini di ancoraggio del debito, gli esercizi di simulazione indicano che un percorso di aggiustamento sostenibile potrebbe prendere un percorso più graduale rispetto all’attuale regola del ventesimo. Simulazioni stilizzate da parte del personale della BCE del quadro a due livelli per l’area dell’euro suggeriscono che un aggiustamento più graduale e sostenibile del debito pubblico sarebbe possibile attraverso una riduzione della velocità di aggiustamento del debito al 3 per cento annuo, dalla attuale regola del 5 per cento annuo, in relazione al divario rispetto al livello di riferimento del debito del 60 per cento. A ciò dovrebbe aggiungersi un orizzonte medio più lungo di dieci anni, anziché tre anni secondo l’attuale regola del debito.
Concretamente, i requisiti di aggiustamento potrebbero essere calibrati per garantire il rispetto del percorso di aggiustamento del debito su un orizzonte prospettico di dieci anni.
Inoltre, tenere conto dell’obiettivo di inflazione simmetrica del due per cento della BCE nella regola della spesa migliorerebbe l’anticiclicità del quadro aumentando automaticamente lo spazio fiscale in periodi di inflazione al di sotto dell’obiettivo e viceversa. In relazione all’orientamento di bilancio, ciò equivale a uno spostamento intertemporale nei tempi dell’aggiustamento fiscale: la politica fiscale sarebbe più flessibile quando l’inflazione è al di sotto dell’obiettivo del due percento, ma più rigida quando l’inflazione è al di sopra dell’obiettivo. Fornendo un ulteriore accomodamento fiscale quando l’inflazione è al di sotto dell’obiettivo, ciò consentirebbe anche alla politica monetaria di operare in modo più efficace, specialmente all’ombra del limite inferiore effettivo. Potrebbero anche essere prese in considerazione varianti più sofisticate (sebbene al prezzo di una maggiore complessità) che distingua debitamente tra shock inflazionistici guidati dalla domanda e guidati dall’offerta.
Il PNRR: luci ed ombre, occasione e sfida da cogliere
L’elemento di particolare novità di NGEU è rappresentato dal fatto che con il Pnrr si avvia, finalmente, un accenno di fiscal union, di bilancio dell’Unione europea, che, come noto, è la seconda gamba della politica economica europea. Questo profilo della politica economica europea che, però, è mancato sin dall’inizio. Abbiamo avuto una politica monetaria unica e ciò ha costretto tutti i Paesi a adeguarsi a un vestito a misura unica. Tuttavia, non abbiamo avuto un bilancio dell’Unione europea. Il bilancio dell’Unione rappresenta e assorbe circa solo l’1% del Pil ed è destinato ad alcune politiche settoriali: dalla politica di coesione alla politica agricola. Certamente, non ha però una dimensione tale da fungere da politica anticiclica e, quindi, assolvere ad una delle tre grandi funzioni dell’intervento pubblico in economia. Adesso con il piano d’azione di ripresa e resilienza e con l’indebitamento europeo, che è già stato anticipato con SURE, si avvia, invece, questa “seconda gamba”. L’altro punto di particolare importanza, che personalmente condivido, contenuto nel Pnrr, è la sottolineatura del tema delle riforme, che, ovviamente, spesso passa un po’ in secondo piano rispetto alla mole di risorse che arriveranno. Questa sottolineatura è stata evidente fin dal principio nel progetto europeo. Il piano nazionale di ripresa e resilienza e le riforme strutturali, che sono il nostro tallone di Achille, dovranno andare di pari passo. D’altronde, rientra anche in una logica elementare degli economisti la funzione di produzione. Non possiamo pensare che solo con una grande mole di risorse finanziarie riusciremo a far ripartire il Paese. Segnalo che proprio col Pnrr è tornato di moda utilizzare il termine resilienza, in passato poco utilizzato e poco conosciuto. Questo sostantivo nella letteratura economica ha un pregresso, una scaturigine di tipo ingegneristico. Resilienza è la capacità di un sistema economico di resistere alle perturbazioni, organizzando una risposta e, quindi, tornando alla funzione e al suo livello di efficienza. È un termine tipicamente ingegneristico, che si declina in termini di flessibilità, modularità e adattabilità.
L’altra luce è, sicuramente, che con il Pnrr verrà posto in evidenza quello che è stato uno dei maggiori benefici del portato del coordinamento delle politiche economiche nell’Unione europea: l’accentuazione del tema del semestre europeo. Le raccomandazioni che ogni anno il Consiglio dell’Unione europea rivolge all’Italia spesso passano sottotraccia. Gli europeisti convinti ne evidenziano l’importanza in termini di capacità di coordinare le politiche economiche europee. Al contrario, gli antieuropeisti (io non prendo le parti di nessuno) evidenziano l’eccessiva invadenza di queste accomandazioni. A prescindere dalle questioni ideologiche, queste raccomandazioni e il loro seguito costituiscono parte della programmazione economica nazionale.
Ci sono anche ombre di cui si è già sentito parlare. Forse, un’ombra consiste proprio nel parlare troppo delle risorse e troppo poco delle riforme. La seconda grande ombra su questo piano di ripresa e resilienza sarà la nostra capacità di “mettere a terra” una così elevata mole di risorse e la capacità di costruire una regia unica, garantendo la coerenza del piano rispetto agli obiettivi perseguiti. A tale proposito, il prossimo decreto-legge di disegno della governance di affiancamento al piano nazionale di ripresa e resilienza definisce i meccanismi specifici.
Un’ultimissima annotazione: si parla tanto di queste risorse, ma vorrei solo ricordare che, in riferimento al grande tema dell’efficienza e dell’efficacia della spesa pubblica, la spesa pubblica ammonta, al netto degli interessi del debito, a quasi 890 miliardi di euro. È un importo annualmente pari a quattro volte quanto saremo chiamati a spendere nei prossimi cinque anni con questi 191.5 miliardi di euro. Certo, sono capitoli di spesa in grande parte obbligatoria: stipendi, pensioni e quant’altro.
L’impulso del PNRR dal lato della domanda è certamente consistente, ma esaurisce i suoi effetti nell’arco di quattro anni. Se non accompagnato dagli effetti dal lato dell’offerta in termini di aumento della produttività totale dei fattori si rischia un pericolo scompenso.
Sono dunque determinanti tre riforme strutturali che dipendono dalla politica nazionale e alle quali sono collegati i fondi del NGEU: la riforma fiscale, la riforma della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia.
Per il fisco (pur assodato che la riduzione del carico non può essere finanziato da risorse PNRR) si può ragionare su una riduzione del cuneo fiscale e contributivo.
Abbiamo quindi un periodo di tre anni per utilizzare bene i fondi europei e per realizzare congiuntamente le riforme strutturali italiane che sosterranno l’impulso di crescita dei fondi europei. Altrimenti nel 2023/24 ci troveremo a forte rischio, perché avremmo avuto l’impulso dei fondi europei aumentando il debito pubblico e non sapendo che rispondere in termini di riforme strutturali interne italiane (senza trascurare il fatto che se non le facciamo gli stessi fondi europei non arriveranno).
Durante la pandemia l’Italia ha puntato su forti e poco selettivi incrementi della spesa pubblica al fine di sostenere i redditi delle imprese e delle famiglie. Così, nonostante il già abnorme livello nel rapporto fra debito pubblico e PIL preesistente alla pandemia, il nostro è stato il Paese membro dell’euro area che ha fatto segnare il maggior incremento di tale rapporto nel 2020. Inoltre, come si è già ricordato, l’Italia è il maggiore beneficiario del RRF (con circa il 28% del totale dei fondi a disposizione) e ha scelto – diversamente da tutti gli altri grandi Paesi dell’euro area – di utilizzare non solo i relativi benefici ma anche l’intero ammontare dei relativi prestiti (122,5 miliardi sempre ai prezzi di fine). Infine, il Governo italiano ha costituito un Fondo nazionale aggiuntivo per oltre 30 miliardi di euro e ha varato un Documento di economia e finanza (DEF) e una proposta di Legge di bilancio che prevedono consistenti spese pubbliche in disavanzo.
Se tale ingente ammontare di risorse sarà effettivamente erogato dalla UE (per la parte di sua competenza) ma non sarà utilizzato dall’Italia in modo efficace ed efficiente, dopo il 2023 il rischio è di ritrovarsi con un Paese che sarà ancora più indebitato ma che non avrà rafforzato il proprio tasso potenziale di crescita. Questa eventualità è molto preoccupante perché, in quell’anno, verranno reintrodotte le regole fiscali europee riguardanti i bilanci nazionali e vi sarà un rallentamento nella politica monetaria espansiva attuata negli ultimi sette anni dalla Banca centrale europea.
Il resoconto che il governo ha presentato al parlamento a fine 2021 sostiene che i 51 obiettivi del 2021 sono stati raggiunti, ma solo sul piano formale. Probabilmente sarà sufficiente per ottenere il primo via libera della UE ma resta la questione se ci si è messi nelle condizioni di realizzare il resto del Piano: cosa è stato fatto per arrivare a una capacità di spesa che non abbiamo mai avuto? Occorre ridurre il numero delle stazioni appaltanti, cioè i centri che possono indire gli appalti, in modo da poterli rinforzare, rendere efficaci e anche diventare argini alla corruzione.
Occorre inserire nella Pa e dei tecnici in grado di gestire i progetti e la spesa.
La transizione ecologica e digitale comporta sfide molto impegnative. Il PNRR stabilisce che agli obiettivi della transizione deve essere destinato circa il 60% delle risorse complessive del programma. Se a queste risorse si aggiungono le spese connesse da destinare alla formazione e riqualificazione della forza lavoro e all’inclusione sociale, si ha che molto più dei 2/3 delle risorse del RRF sono destinate alla transizione. Nonostante tale concentrazione allocativa, è stato calcolato che i finanziamenti europei saranno in grado di coprire solo una parte limitata degli investimenti e delle spese correnti richieste. Fra il 2022 e il 2026, il settore privato dovrebbe infatti mobilizzare un quintuplo delle risorse allo scopo offerte dal RRF.
La dimensione della sfida è stata finora sottovalutata dai governi nazionali. La recente crescita dei prezzi delle materie prime e dell’energia con le conseguenti tensioni inflazionistiche del post-pandemia sono, infatti, indicatori di cambiamenti più strutturali che portano a irreversibili ricomposizioni dell’offerta e della domanda aggregate e a ulteriori polarizzazioni nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze. La UE, così facendo, sembra auto condannarsi ad una posizione marginale sul piano internazionale. Essa rimarrebbe, infatti, schiacciata dall’aggressiva competizione tecnologica fra Stati Uniti e Cina e risulterebbe incapace di valorizzare i suoi indubbi vantaggi sul terreno dell’ambiente, della regolamentazione e del welfare state.
Quanto detto vale, in particolare, per l’Italia. Il nostro Paese gode di posizioni di vantaggio comparato rispetto alla già eccellente media della UE e dell’euro area in termini di “economia circolare” e di energie sostenibili. Tuttavia, gli obiettivi del RRF e – almeno in parte – del nostro PNRR sottolineano che l’economia italiana deve superare almeno tre fattori di grave debolezza.
Le imprese operanti nei comparti della meccanica di precisione e in comparti contigui che presiedono fasi produttive ad alto contenuto tecnologico nelle catene internazionali ed europee dell’automotive dovranno misurarsi con il passaggio alla produzione di auto elettriche.
A fronte di ciò e nonostante un nucleo di attività sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, va ricordato che la maggioranza delle imprese italiane sono PMI con una produttività bassa o stagnante. Ciò vale soprattutto per il settore dei servizi e nei settori protetti dalla competizione internazionale ma riguarda anche componenti rilevanti del settore manifatturiero. Pertanto, se vuole misurarsi con la transizione digitale e ripristinare un’adeguata dinamica della produttività, gran parte delle imprese italiane deve attuare processi di aggregazione e di ristrutturazione molto più profondi di quelli richiesti in altri grandi Paesi dell’euro area. Per giunta, anche una quota del ristretto numero di imprese italiane di eccellenza dovrà misurarsi con costose riconversioni produttive.
In secondo luogo, ancor più degli altri grandi Paesi dell’euro area, l’Italia ha mercati finanziari non-bancari sottodimensionati. La schiacciante maggioranza delle imprese italiane ha una struttura finanziaria incentrata sull’autofinanziamento e sul debito bancario; nonostante la sua recente e forte crescita, il mercato dei corporate bond è ancora sottodimensionato; i mercati azionari coinvolgono un ristretto numero di imprese private nazionali; gli investitori istituzionali sono deboli e hanno allocazioni di portafoglio molto prudenziali. Una tale articolazione finanziaria, che si accompagna ad assetti proprietari incentrati sulla figura dell’imprenditore capo-famiglia, è inadeguata per rendere disponibili le risorse necessarie alle ristrutturazioni, aggregazioni e innovazioni tecnologiche. Ne deriva che la già difficile scommessa di realizzare gli investimenti pubblici, inseriti nel PNRR, si combina con un insufficiente sostegno agli ingenti investimenti privati che sarebbero necessari per completare cambiamenti così profondi.
Il mercato italiano del lavoro è caratterizzato da uno dei più bassi tassi di attività fra i Paesi economicamente avanzati; per giunta, la domanda di lavoro penalizza i giovani e le figure a più elevata professionalizzazione e l’offerta di lavoro denuncia una forte incidenza di lavoratori maturi o anziani con competenze tradizionali e di lavoratori con bassa educazione e con basse qualifiche. A fronte delle radicali riorganizzazioni produttive imposte dalle transizioni “verde” e digitale e sopra accennate, queste caratteristiche della domanda e dell’offerta di lavoro causano “colli di bottiglia” molto distorsivi.
Come detto in premessa, è decisiva per una efficace utilizzazione delle risorse del PNRR intervenire sulle inefficienze della burocrazia e della giustizia prima di pensare a spendere le risorse in investimenti che sarebbero – altrimenti – bloccati o depotenziati a causa di tali inefficienze.
È quindi positivo che si siano annunciate molte delle riforme generali (relative alla giustizia, alla concorrenza, al sistema fiscale, e così via) che erano state inserite nelle prime fasi del PNRR italiano o in protocolli a esso collegati. Ciò consentirà all’Italia di rispettare i primi impegni verso la Commissione europea in termini milestones e targets.
Va detto però che il Governo italiano ha approvato le linee-guida di tali riforme mediante leggi-delega; e che il rimando a deleghe, per quanto necessario e inevitabile nel breve periodo, non va assimilato all’attuazione delle riforme.
Insomma, più si delinea il Pnrr e più si staglia sullo sfondo la prospettiva di ulteriori sfide. Vanno considerate attentamente le giuste condizionalità chieste dall’Europa. Ne sono esempi la riforma della giustizia che viene fatta in fretta per ottenere la prima parte di finanziamenti ma che non darà certezze alle imprese che investono in Italia perché, come dimostrano le difficoltà nelle assunzioni solo a tempo determinato previste dal piano che non invogliano la partecipazione dei professionisti necessari a creare il livello di personale che serve a dare certezza del giudizio in tempi celeri. Va poi considerato che la condizionalità maggiore che l’Europa chiede comprimerà i margini di manovra nazionali.
Conclusioni
La criticità del PNRR, che deriverebbe dalla mancata attuazione delle riforme generali approvate nelle loro linee-guida, trova un complemento nella non chiarissima ripartizione dei compiti tra Stato ed autonomie territoriali per l’effettiva realizzazione dei progetti del PNRR italiano. Come è noto, molti di questi progetti (costituiti, in genere, dalla combinazione di riforme e investimenti) sono affidati al ministero competente per materia. Spesso il ministero non ha, tuttavia, il compito di attuare direttamente le varie parti dei progetti. Seguendo le procedure vigenti, esso è chiamato ad assegnare ciascuna di quelle parti alle regioni, agli enti locali oppure a imprese o ad altri operatori di mercato. La tendenza dei ministeri, che può essere desunta da esplicite dichiarazioni pubbliche, è di considerare assolta la propria funzione (e, dunque, completati i progetti di competenza) una volta che tutte le componenti di quei progetti sono state assegnate all’esterno e le relative poste finanziarie sono state iscritte nei budget. Come mostra la storia recente (e tutt’altro che esemplare) dell’utilizzo italiano dei Fondi strutturali europei, il nostro Paese talvolta non ha brillato per la sua capacità di utilizzare una quota consistente di quei fondi, che pure sono finanziati a progetto e non a risultato (come succede col PNRR). Questa semplice constatazione raccomanda un attento controllo, in corso d’opera (come si suole dire), della fase di attuazione di ogni singola parte dei progetti del PNRR italiano da parte di strutture centrali e pubbliche.
Il Governo italiano ha predisposto vari centri di controllo rispetto all’attuazione delle diverse fasi del PNRR sia presso la Presidenza del Consiglio che presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze (e altri ministeri).
Dunque, più luci o più ombre? Se vogliamo stilare un bilancio estremamente sintetico di questa iniziativa, con ogni certezza vi sono più luci, sia per il maggiore coordinamento, sia per la specifica concentrazione sugli investimenti.
Il Pnrr non dovrebbe essere un mero trasferimento di risorse finanziarie per compensare uno shock asimmetrico, ma uno strumento strategico di lungo termine per rinsaldare il legale economico e sociale tra Italia e Unione europea, riallineando l’Italia al percorso di crescita degli Stati più dinamici e integrandolo nelle nuove filiere sostenibili ad alta tecnologia che trasformeranno i mercati globali nei prossimi anni. I fondi dovranno essere ripagati dalle nuove generazioni: non debbono essere destinati a distribuire bonus e prebende per i padri d’Italia, bensì a costruire piattaforme d’offerta di prodotti e servizi innovativi e sostenibili per i figli dell’Europa di domani.
[1] Cfr. COM (2022) 600 final, European Semester Spring Package: Sustaining a green and sustainable recovery in the face of increased uncertainty.
[2] Si veda SWD 2022 616 final.