Un’analisi up to date degli ostacoli lungo il cammino della nuova infrastruttura unica attraverso il punto di vista degli stakeholder.
Di Massimo Comito
Dalla firma del ormai noto Memorandum of Undestanding (MoU) non vincolante, abbiamo letto diverse e rispettabili opinioni circa la complessa trattativa fra Cdp, Kkr, Macquarie, Open Fiber e Tim – con un forte peso del principale azionista Vivendi – che riguarda la cosiddetta NetCo, una delle componenti, insieme alla ServCo, dell’ormai noto progetto di separazione in almeno due entità separate – i sindacati lo chiamano “spezzatino” – varato dal nuovo AD di Tim con l’appoggio dell’azionista francese.
Dopo serrati dibattiti sull’opportunità di dare all’Italia una sola infrastruttura di rete, oggi il nodo della questione, in verità non l’unico, è appunto la NetCo e cioè la componente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, ormai meglio delineato di prima, di creare una rete unica senza il controllo di un operatore verticalmente integrato ma piuttosto con quello dello Stato.
Prima di tutto una banale considerazione: tutti d’accordo che più alto è il valore (per intenderci e semplificare i 20-21 miliardi di euro che si leggono sui media ma che Vivendi considera sottostimati), più alta è la quota di debito (l’Indebitamento Finanziario Netto rettificato che ammonta a 22.187 milioni di euro al 31 dic 2021) che Tim riuscirà a spostare sulla NetCo, più alto sarà il vantaggio che Tim e i suoi azionisti riusciranno a realizzare nell’operazione per il rilancio delle attività rimanenti dopo l’operazione di separazione in due entità e la vendita della società della rete a Cdp.
Occorrerà dunque che le controparti trovino un accordo sulla valutazione della NetCo, ma non è tutto. La valutazione di NetCo infatti non è il solo nodo della questione perché man mano che si va avanti iniziano ad essere evidenziati, dagli osservatori più informati e spesso interessati ovvero gli stakeholder, diversi argomenti ancora da approfondire: industriali, finanziari, ad impatto sulle banche, politici, regolatori, occupazionali. Argomenti che vedranno impegnati tutti, nei mesi che ci accompagneranno fino al 31 ottobre, per raggiungere un accordo vincolante fra tutti i protagonisti e con il benestare da parte di tutte le istituzioni italiane ed europee rilevanti.
Essendo Cdp (e quindi lo Stato e molti risparmiatori italiani) l’attore principale della trattativa o quantomeno la società che , insieme a Kkr e Macquaire, dovrebbe acquistare NetCo per realizzare la rete unica – per quel che è dato sapere integrandola in Open Fiber posseduta al 60% insieme al 40% di Macquaire – è lampante, come primo punto, l’interesse dei vari stakeholder a capire, insieme ai fondamentali risvolti industriali che la rete unica avrà sul completamento dell’infrastruttura in fibra del paese, a che prezzo questa “vendita” avverrà senza il timore che tutta l’operazione sia un progetto industriale non conveniente per l’Italia.
Gli analisti ragionano su dati ufficiali non ancora completi, uno per esempio è la lista degli asset (al 3 mar 2022), in termini di rete, che dovrebbero confluire nella NetCo e cioè l’international connectivity (Sparkle), i real estate & building systems, il backbone fibers & legacy transport, l’access electronics & central office, i cabinets, e la fixed primary and fixed secondary (FiberCop): le componenti che, attraverso uno o più veicoli societari, dovrebbero essere acquistate da Cdp attraverso la controllata Open Fiber.
Alla data, poco si sa sulla quota di debito da riversare e sul numero dei lavoratori che verranno impiegati nella costituenda NetCo.
In questo scenario, ribadisco ancora non completo, diverse fonti di stampa, che si avvalgono di esperti del settore, iniziano a porre delle domande, che sicuramente troveranno risposte nel corso dei mesi a venire. Cercherò di citare quelle a mio parere più significative, scusandomi fin da subito se ne tralascerò qualcuna.
Sul valore della NetCo. Secondo key4biz “non sono pochi coloro che considerano la cifra di 20 miliardi [di euro] più che attraente [per la NetCo], considerato che il valore complessivo di Tim tutta insieme non supera i 7 miliardi di euro, con una capitalizzazione che oggi si ferma a 6,17 miliardi di euro”. E si pone la domanda: “Perché il valore di una parte di Tim, la rete, dovrebbe valere tre volte tanto il totale della sua capitalizzazione”?
Che vuol dire: può Cdp accettare una valutazione di NetCo che potrebbe non risultare congrua, perché eccessivamente alta nonostante il valore liberato dal progetto di separazione in due entità, senza che questo suoni come un aiuto di stato ad un’azienda ed indirettamente alle banche che l’hanno finanziata? Proprio a questo proposito l’Huffingtonpost, analizzando il processo ed i valori, ad oggi ipotizzati, verso la costituzione delle rete unica sostiene “… questa volta non si tratterebbe [solo] di [un problema] antitrust, bensì di aiuti di Stato, un settore peraltro sempre di competenza del commissario europeo Vestager, che così si ritroverebbe tra le mani una doppia arma per imbrigliare l’operazione”.
E comunque su questo argomento in generale, la storia insegna che le supervalutazioni di aziende accettate da qualunque società che acquista, pubblica o privata che sia, possono essere non poco imbarazzanti “ex post”.
E quanto alle comparazioni invocate da alcuni circa l’elevata valutazione di Open Fiber nell’operazione Enel-Cdp-Macquarie, qualcuno oppone il fatto che Open Fiber, essendo priva di reti ed impianti legacy che non solo dovranno essere presto dismesse ma che sono anche costose da manutenere nel frattempo, ha un valore prospettico relativo più alto, come tutte le reti full Ftth del mondo e come il business infrastrutturale delle torri sta insegnando.
Fatte queste premesse appare evidente che il nodo da sciogliere nei prossimi mesi non è banale se anche De Puyfontaine di Vivendi ha recentemente dichiarato di non essere per niente propenso a cedere asset se il valore (che Vivendi ritiene più alto dei 20-21 miliardi di euro di cui si legge) non sarà riconosciuto. Sacrosantamente egli afferma che Vivendi deve essere il primo difensore degli interessi di Tim nell’operazione, ma, allo stesso tempo non si può ignorare, per un esito favorevole della trattativa e pena la messa a terra di un vero e proprio piano-B da parte di Tim, che in ballo ci sono anche gli interessi dei tanti azionisti diffusi di Cdp e cioè i risparmiatori, che qualcun altro deve salvaguardare.
In questo contesto, tutto nelle mani dei player che stanno definendo il percorso verso la nuova rete unica, alcuni altri operatori italiani iniziano a rappresentare la propria posizione che non potrà essere ignorata perché, per prassi, saranno le stesse considerazioni che le autorità continentali studieranno e approfondiranno e che, per certi aspetti, sono state anche le preoccupazioni, riportate dai media, da parte del fondo americano Kkr prima di firmare il MoU non vincolante.
Fastweb per bocca del suo AD Calcagno, per esempio, che pur essendo azionista di FiberCop, “anche se piccolo” come lui stesso dice, ha recentemente dichiarato, che di rete unica ha senso parlare solo per le aree grigie e bianche e non certamente le aree nere dove sono presenti altre reti (Ansa.it Video).
Anche l’AD di Retelit, Protto, in un’articolata intervista a Il Sole 24 Ore, sostiene, proprio perché la rete unica deve essere funzionale alla realizzazione delle infrastrutture nelle aree ancora scoperte, che l’infrastruttura unica debba operare solo nelle aree grigie e come debbano essere rispettate le condizioni per cui preservare a tutti i costi la concorrenza infrastrutturale nelle aree dove c’è già e sta funzionando. Una rete unica, che nascesse in una fase di concorrenza ormai presente, dovrà essere opportunamente regolamentata e “letta in termini di competition e di remedies eventuali”.
E chiama le Autorità regolatorie, analogamente a quanto fatto per le assegnazioni delle frequenze, ad una analoga assegnazione ad altri operatori wholesale già operanti, di porzioni di rete in sovrapposizione, magari nelle grandi aree metropolitane, per continuare a mantenere viva la concorrenza anche nel mercato all’ingrosso, auspicando altresì: “un’apertura al coinvestimento, tutelando gli investimenti pregressi degli operatori”.
Come se non bastasse, a complicare le cose, si inserisce la recente richiesta da parte di Tim di indicizzazione dei prezzi al tasso di inflazione per il progetto di coinvestimento; un progetto il cui schema finale dell’offerta era stato già portato all’approvazione di Agcom e inviato all’attenzione della Commissione europea. E che oggi apre all’eventualità di ritirare la notifica di tale schema alla Commissione, chiamata ad esprimersi prima dell’adozione del provvedimento finale di Agcom. A tale proposito l’articolo di la Repubblica descrive il punto di vista della commissaria dell’Autorità, Giomi, che evidenzia un cambio rotta da parte dei coinvestitori coinvolti e pone sul tavolo il tema dei prezzi indicizzati che la nuova rete unica dovesse ereditare dalle reti che vi confluiranno. “Non si può curare l’inflazione con l’inflazione”, lei sostiene.
E per concludere i sindacati. Un po’ tutte le sigle sindacali sono critiche circa le modalità con cui si intende realizzare la rete unica perché potenzialmente pericolose per i forti impatti sull’occupazione ed inoltre, per dirla con le parole di Landini: “l’accordo tra Tim, Open Fiber e Cdp per la costruzione della rete unica in fibra rappresenta di per sé una scelta di buon senso … “ma … l’Italia non può correre il rischio di perdere l’unico operatore telefonico domestico. Saremmo l’unico Paese in Europa ad esserne privi”. Ma questa è un’altra storia, forse poco compatibile con la scelta di buon senso che lui cita.
Ostacoli insormontabili? Forse no, se il giusto equilibrio prevarrà.