La guerra “calda” è tornata in modo brutale e repentino alle porte d’Europa; quella “fredda”, con ogni probabilità, è in casa nostra già da un po’ di tempo. E che ci piaccia o meno, con entrambe dovremo fare i conti, anche in termini economici e finanziari.
Il nostro sistema produttivo sta già sopportando gli effetti prodotti dagli scontri in Ucraina e dal nuovo clima economico da questi prodotto, compresa un’inflazione che non si vedeva ormai da quasi tre decenni.
E anche il bilancio pubblico, a breve, dovrà affrontare il tema della spesa militare.
Di Luciano Cimbolini
Nella storia, dalla più antica alla moderna, guerra e debito sono legate da un vincolo indissolubile. Per poco meno di tre millenni, sono state le guerre a determinare il ricorso e la dimensione del debito pubblico, nonché il suo rapporto con la ricchezza nazionale. Le spese militari, fino alla nascita del moderno stato sociale, sono state di gran lunga la principale voce di uscita e, in caso di vittoria, pure la maggiore fonte di entrata dei bilanci delle organizzazioni statali. Solo con “l’acquisizione” al perimetro pubblico delle funzioni sociali, sanitarie e di sviluppo economico proprie dello stato sociale occidentale, il peso delle spese militari nei bilanci pubblici si è relativamente ridimensionata, cioè in relazione ad altre voci di spesa pubblica proprie dell’amministrazione civile e del welfare state.
Al centro dell’attuale dibattito politico c’è l’aumento delle spese militari italiane.
Lo scorso 16 marzo la Camera ha approvato a larga maggioranza un ordine del giorno che impegna il governo a portare queste spese a un valore pari al 2 per cento del Pil. Quest’aumento è previsto all’interno di accordi da tempo presi in sede Nato.
Oggi il bilancio della Nato in quanto tale è pari a circa 2,5 miliardi di euro, una cifra piuttosto ridotta rispetto alla grandezza dell’organizzazione.
I contributi indiretti dei trenta paesi aderenti, invece, sono i più consistenti e riguardano, per esempio, i casi in cui un Paese mette a disposizione le proprie truppe o attrezzature in un’operazione militare. Le spese per queste operazioni volontarie sono totalmente a carico dei singoli Paesi che le conducono.
Per assicurarsi che, in caso di necessità, tutti i Paesi Nato possano contribuire in modo significativo agli sforzi dell’alleanza con i propri mezzi (contributi indiretti) è stato deciso che gli Stati membri debbano spendere per la difesa nazionale una cifra pari almeno al 2 per cento del proprio Pil.
Il riferimento al 2 per cento del Pil da destinare alle spese militari è comparso per la prima volta nel 2006, nel corso di una conferenza stampa al margine del vertice Nato di Riga, in Lettonia. In quell’occasione, per la prima volta, i ministri della Difesa dei Paesi membri della Nato hanno espresso la volontà di destinare il 2 per cento del Pil alle spese militari, anche se all’epoca era stato precisato che non si trattava di un impegno formale, ma della volontà di arrivare progressivamente a quest’obiettivo.
Nel settembre 2014, quindi dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, al summit di Newport, in Galles, i capi di Stato e di governo dei Paesi Nato hanno formalizzato quanto deciso nel 2006. Nella dichiarazione conclusiva del vertice si legge infatti che tutti gli alleati che spendevano meno del 2 per del Pil in ambito militare – tra cui anche l’Italia – avrebbero dovuto evitare ogni ulteriore riduzione per questa voce di spesa, e anzi avrebbero dovuto aumentare il budget seguendo le direttive Nato, in modo da raggiungere la soglia del 2 per cento entro il 2014.
Anche questa dichiarazione rappresentava però un impegno non vincolante, vale a dire, sprovvisto di specifiche sanzioni in caso per chi non lo avesse rispettato. In tutti i successivi summit della Nato questa impegno è stato riconfermato.
Facciamo due calcoli veloci.
Il bilancio di previsione 2021 prevedeva come stanziamento assestato di competenza per la missione 005 – Difesa e sicurezza del territorio un importo di circa 25.407 milioni di euro. Il nostro PIL, sempre nel 2021, è stato pari a 1.781.221 milioni di euro. Grosso modo, dunque, il rapporto fra la spesa militare ed il PIL, ovvero il parametro Nato, nel 2021 è stato l’1,43 per cento.
Nel bilancio di previsione iniziale 2022 la previsione iniziale relativa alla missione 005 – Difesa e sicurezza del territorio è pari, in termini di competenza, a 25.599 milioni di euro. L’ammontare, in termini assoluti, del Pil 2022 previsto nella Nadef 2021 è di 1.856.032 milioni di euro (+ 4,2% sul 2021).
Grosso modo, pertanto, possiamo dire che, nel 2022, il 2% delle spese militari (parametro Nato) ammonterebbe a 37.121 milioni di euro.
Se volessimo rispettare il parametro NATO, spesandolo tutto nel 2023, l’aumento rispetto alla spesa militare prevista rispetto al dato del bilancio di previsione del 2022 sarebbe di 11.522 milioni di euro. È evidente che un probabile calo del PIL rispetto alle previsioni attuali nel 2022 o negli anni successivi, potrebbe contabilmente diminuire questo importo.
Se il dato contabile che, prendendo come base, dati di bilancio e di ricchezza nazionale declinati in termini di previsione, risulta ancora aleatorio, il dato politico invece è piuttosto chiaro.
In sintesi, se volessimo rispettare gli impegni presi in sede Nato in termini di difesa, lo sforzo finanziario che dovrà fare il nostro bilancio pubblico sarà nell’ordine dei 12 miliardi di euro da calibrarsi in ragione della diluizione o meno nel tempo dell’aumento stesso. Non hanno, difatti, esattamente lo stesso impatto incrementi di spese per dodici miliardi in due anziché in sei anni,
Sui risvolti politici e morali di questo possibile aumento non è facile prendere posizione ed ogni opinione sul punto è legittima Chi scrive, tuttavia, ritiene che il contesto internazionale che si è venuto creando, con un chiaro ritorno di politiche di potenza territoriale che vedono la guerra come fattore cruciale di politica internazionale, assieme ai nostri impegni atlantici, imporranno un adeguamento, seppur graduale, della nostra spesa militare al parametro Nato.
A proposito di spesa militare, proviamo a dare uno sguardo al panorama internazionale.
I dati sono quelli del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), che, nel suo rapporto 2021 “Armamenti, disarmo e sicurezza internazionale”, mette in file le spese militari dei principali attori internazionali. L’anno di riferimento è il 2020 e il valore è espresso in miliardi di dollari.
Spesa militare 2020 | (US $ mld) | |
1 | Stati Uniti d’America | 778 |
2 | Cina | 252 |
3 | India | 72,9 |
4 | Russia | 61,7 |
5 | Regno Unito | 59,2 |
6 | Arabia Saudita | 57,5 |
7 | Germania | 52,8 |
8 | Francia | 52,7 |
9 | Giappone | 49,1 |
10 | Corea del Sud | 45,7 |
11 | Italia | 28,9 |
Al fine di un riscontro dei dati, si può segnalare che, in termini di impegni e fondi conservati di competenza, nel rendiconto dello Stato 2020 la missione 005 – Difesa e sicurezza del territorio valeva 23,73 miliardi di euro, mentre il cambio era 1,22 dollari per un 1 euro. In dollari, pertanto, arriviamo ad un valore di 28,9 miliardi, ossia, all’equivalente di quanto riportato nei calcoli del SIPRI.
Se guardiamo invece il solo il panorama europeo, nel 2019, abbiamo i seguenti valori in termini di PIL
Spesa per la difesa: incidenza sul PIL – 2019 | |
Belgio | 0,8 |
Bulgaria | 1,2 |
Repubblica Ceca | 0,9 |
Danimarca | 1,1 |
Germania | 1,1 |
Estonia | 2,1 |
Irlanda | 0,2 |
Grecia | 2,0 |
Spagna | 0,8 |
Francia | 1,7 |
Croazia | 1,0 |
Italia | 1,3 |
Cipro | 1,8 |
Lettonia | 1,9 |
Lituania | 1,6 |
Lussemburgo | 0,4 |
Ungheria | 1,0 |
Malta | 0,7 |
Paesi Bassi | 1,3 |
Austria | 0,6 |
Polonia | 1,6 |
Portogallo | 0,8 |
Romania | 1,7 |
Slovenia | 1,0 |
Slovacchia | 1,1 |
Finlandia | 1,2 |
Svezia | 1,2 |
Unione Europea (27) | 1,2 |
L’Italia, dunque, risulta leggermente sopra la media europea.
Però, solo per dare un’idea dei cambiamenti in atto a seguito del conflitto ucraino, pensiamo al colossale riarmo tedesco. I 102 miliardi assegnati da Cancelliere Scholz alle Forze armate, con la promessa di spendere almeno il 2% del PIL per la difesa negli anni a venire, faranno della Bundesrepublik la terza nazione al mondo per spese militari.
Il contesto dei conti pubblici italiani in cui l’adeguamento al parametro Nato potrebbe avvenire, tuttavia, è piuttosto critico.
Il nostro bilancio pubblico, al pari di quelli di pressoché tutti gli altri attori internazionali, viene da quindici anni di fortissima tensione, connotati da due cicli di ingenti sforzi emergenziali.
Il primo sforzo è quello dovuto alla crisi iniziata nel 2007 sui mercati finanziari privati per poi proseguire in Europa, a partire dal 2011, sui mercati europei del debito pubblico. Questo ciclo, grosso modo, ha prodotto i suoi effetti sul bilancio pubblico fino al 2019. Gli ultimi strascichi sono stati gli interventi in favore di istituti bancari smantellati o ridimensionati da crisi sistemiche, Monte dei Paschi di Siena in primis.
La seconda ed ancora più poderosa onda d’urto sulle finanze pubbliche è avvenuta a partire dal 2020 e tuttora in corso a seguito dell’emergenza sanitaria pandemica.
Proviamo a dare un’idea delle dimensioni di questo duplice impatto.
In termini di bilancio previsionale iniziale, dal 2008 al 2022 il bilancio di competenza dello Stato nel suo complesso (spesa corrente, spesa in conto capitale e rimborso di passività finanziarie) è passato da 707 miliardi di euro a 1.094 miliardi di euro con un aumento di 387 miliardi di euro di massa impegnabile.
Se guardiamo il dato degli impegni di competenza del periodo che va dal 2008 al 2020 (ultimo esercizio rendicontato), si passa da 704 miliardi euro a 980 miliardi di euro, con un aumento di 276 miliardi.
Le spese correnti (comprensive degli interessi), a livello di bilancio di previsione iniziale, sono passate da 458 miliardi di euro nel 2008 a 669 miliardi di euro nel 2022, con aumento di 211 miliardi; le spese in conto capitale sono pari nel 2022 a 148 miliardi di euro rispetto ai 51 miliardi del 2008 (con un aumento di 97 miliardi); il rimborso delle passività finanziarie è passato dai 198 miliardi del 2008 ai 277 miliardi di euro del 2022 (con un aumento di 79 miliardi di euro).
Il costo per gli interessi sul debito pubblico, nel 2022, è previsto in 76 miliardi di euro, mentre nel 2008 era di 79 miliardi.
Il debito pubblico al primo gennaio 2022 era pari a 2.607 miliardi di euro; al 31.12.2007 era pari a 1.599 miliardi di euro, con un aumento di 1.008 miliardi di euro.
Questi numeri, al netto di analisi basate sul solo “paradigma dello spreco”, evidenziano l’enorme sforzo fatto dal bilancio pubblico (ovvero dalle tasse presenti e future a carico di cittadini e delle imprese) per far fronte alle innumerevoli emergenze sociali ed economiche che le due crisi senza soluzione di continuità hanno generato nel panorama italiano.
Come accennato sopra, chi scrive ritiene molto difficile, dato il contesto geopolitico, evitare l’aumento della nostra spesa militare sino al raggiungimento parametro Nato.
Premesso questo, il dilemma che la situazione internazionale ora pone alla nostra finanza pubblica è come finanziare questi 12 miliardi circa di spesa aggiuntiva da destinare alla missione la missione 005 – Difesa e sicurezza del territorio.
Le variabili dello sforzo effettivo, al momento, non sono determinabili con certezza. Una dinamica al ribasso anziché al rialzo del PIL (come previsto negli atti di programmazione), difatti, renderebbe il finanziamento della spesa militare supplementare molto più difficile rispetto ad un contesto macroeconomico di aumento della ricchezza nazionale. Così come un periodo più lungo per l’adeguamento mitigherebbe l’impatto annuale dello stesso sugli equilibri del bilancio pubblico, rendendo lo sforzo più sostenibile.
Alcuni considerazioni generali sotto il profilo della finanza pubblica sono opportune.
Di massimo, un aumento di spesa si finanzia o con un aumento di entrate, o con una diminuzione di spese (oppure con un mix di queste misure) o con un aumento del deficit e del conseguente incremento del debito pubblico.
La spesa militare si caratterizza per essere una spesa di fatto rigida. Una volta raggiunto un determinato livello è molto difficile che poi possa a diminuire.
Il suo finanziamento, pertanto, richiede coperture stabili che tendano a consolidarsi nel tempo.
La nostra situazione di bilancio, a causa dell’elevato valore del nostro debito pubblico, è molto fragile in quanto esposta alla variabile del rialzo dei tassi d’interesse che potrebbe pesare in modo molto pesante sui costi di rifinanziamento e quindi sugli equilibri di parte corrente. Questo pericolo, ovviamente, diventa tanto più concreto quanto il tasso d’inflazione presenti una curva in aumento.
Nel contesto attuale della nostra finanza pubblica non sarà semplice trovare spazio per un consistente ampliamento di spesa “rigida” come quella militare, poiché appare problematico pensare ad un ulteriore ricorso al deficit tramite scostamenti di bilancio, così come appaiono di difficile praticabilità drastici tagli lineari di “altra” spesa o aumenti di tassazione.
L’unica strada che potrebbe rivelarsi percorribile, senza eccessivi traumi, soprattutto se prevarrà l’ipotesi di allungare il periodo di adeguamento, è quella di ricorre a tecniche di analisi e valutazione della spesa per trovare le risorse, nel nostro bilancio pubblico, necessarie a finanziare il raggiungimento del parametro NATO.
Si tratterebbe di mettere in pratica, in modo sostanziale, quella che con brutto inglesismo viene chiamata spending review.
L’attività di analisi e valutazione della spesa consiste in uno strumento di programmazione delle finanze pubbliche tendente a fornire una metodologia sistematica per migliorare sia il processo di decisione delle priorità e di allocazione delle risorse, sia la prestazione delle amministrazioni pubbliche in termini di qualità ed efficienza dei servizi offerti.
Queste tecniche affiancano i tradizionali controlli giuridici contabili, fondati su vincoli ex ante alle autorizzazioni di spesa e sulla verifica ex post della correttezza procedurale, con procedure sistematiche di valutazione dell’efficienza della spesa e dell’efficacia delle politiche, anche al fine di realizzare, in via tendenziale, il passaggio da un criterio di allocazione delle risorse basato sulla spesa storica al principio, sperimentato in altri ordinamenti, del cosiddetto bilancio “a base zero” (zero base budgeting).
Non si tratta di un semplice meccanismo di riduzione della spesa; anzi dovrebbe essere l’esatto contrario della gestione del bilancio secondo il criterio della spesa storica e del controllo della finanza pubblica mediante tagli lineari.
L’idea sottostante alla revisione della spesa è quella del superamento di un approccio puramente incrementale nelle decisioni di allocazione di bilancio, focalizzato esclusivamente sulle risorse aggiuntive destinate ai programmi di spesa esistenti o a nuovi programmi, per spostare l’analisi e le valutazioni su tutta la spesa in essere. Il controllo della spesa, per conseguire risultati concreti, deve intervenire sui meccanismi che la generano, fornire le informazioni necessarie a rivedere le priorità in ciascun settore, abbandonare eventualmente le attività “improduttive” e a riconsiderare l’organizzazione della produzione dei servizi.
Gli strumenti in tal senso sono già presenti nel nostro ordinamento.
Per quanto concerne il bilancio dello Stato, dopo un periodo sperimentale e comunque caratterizzato da interventi legislativi una tantum, con la riforma della legge di bilancio operata nel corso del 2016 (che ha modificato la l. n. 196/2009 “Legge di contabilità e finanza pubblica”) è stato definito un processo di revisione sistematica e strutturale della spesa, che prevede la definizione degli obiettivi di spesa dei ministeri già nel Documento di economia e finanza.
Una delle novità più rilevanti della riforma della legge di contabilità – operata nel del 2016 con i due d.lgs. n. 90 e 93 del 2016 nonché con la legge n. 163 del 2016 – è rappresentata dal rafforzamento del processo di programmazione economico-finanziaria delle risorse, attraverso l’integrazione del processo di revisione della spesa nel ciclo di bilancio, nell’ottica di un rafforzamento della programmazione finanziaria e del raggiungimento di un maggior grado di strutturazione e sistematicità del processo stesso di revisione della spesa.
Nell’ambito della Legge di contabilità e finanza pubblica ci sono diversi articoli dedicati, direttamente o indirettamente, all’analisi e valutazione della spesa. I più importanti sono gli articoli 22-bis e 39. Quest’ultimo prevede l’istituzione, presso le amministrazioni centrali, di nuclei di analisi e valutazione della spesa al fine di garantire il supporto alle stesse PA per la verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi programmatici di finanza pubblica, per il monitoraggio dell’efficacia delle misure rivolte al loro conseguimento e di quelle disposte per incrementare il livello di efficienza dell’azione amministrativa.
L’articolo 22-bis dispone, invece, un processo integrato organicamente nella programmazione economico-finanziaria e nel processo di predisposizione del bilancio annuale e pluriennale, prevedendo il coinvolgimento e la responsabilizzazione delle amministrazioni la cui spesa è oggetto di analisi, in una logica di tipo top-down, in cui gli obiettivi di spesa per ogni soggetto sono definiti sotto il vincolo delle compatibilità macro-economiche e in coerenza con le priorità strategiche indicate nel DEF, approvato dal Parlamento. Per il conseguimento degli obiettivi di spesa, i singoli ministeri, sulla base della legislazione vigente e degli obiettivi programmatici indicati nel DEF, propongono gli interventi da adottare con il disegno di legge di bilancio. Il tutto in un’ottica di rafforzamento del processo di programmazione economico-finanziaria delle risorse, attraverso l’integrazione del processo di revisione della spesa nel ciclo di bilancio.
In base al citato articolo 22-bis, comma 1, della legge n. 196/2009, sulla base degli obiettivi programmatici indicati nel Documento di economia e finanza e di quanto previsto dal cronoprogramma delle riforme indicato nel suddetto documento programmatico, entro il 31 maggio di ciascun anno, con D.P.C.M., su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze (previa deliberazione del Consiglio dei Ministri) sono definiti gli obiettivi di spesa di ciascun ministero riferiti al successivo triennio. In relazione a tali obiettivi, definiti in termini di limiti di spesa e di risparmi da conseguire, i Ministri definiscono la propria programmazione finanziaria, indicando gli interventi da adottare con il successivo disegno di legge di bilancio.
Dopo l’approvazione della legge di bilancio, entro il 1° marzo di ciascun anno, il Ministro dell’economia e ciascun Ministro di spesa stabiliscono in appositi accordi (definiti con decreti interministeriali) le modalità e i termini per il monitoraggio del conseguimento degli obiettivi di spesa. Negli accordi sono quindi indicati gli interventi che si intende porre in essere per la loro realizzazione e il relativo cronoprogramma. I medesimi accordi possono essere aggiornati, anche in considerazione di successivi interventi legislativi che possano avere effetti sugli obiettivi oggetto degli accordi stessi.
Il Ministro dell’economia informa il Consiglio dei ministri sullo stato di attuazione degli accordi, sulla base di apposite schede trasmesse da ciascun Ministro entro il 15 luglio. Entro il 1° marzo dell’anno successivo, ciascun Ministro invia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’economia una relazione – che verrà allegata al DEF – sul grado di raggiungimento dei risultati in riferimento agli accordi in essere nell’esercizio precedente.
La nuova procedura ha trovato attuazione per la prima (e, al momento, unica) volta nell’anno 2017, con riferimento al triennio di programmazione 2018-2020. In relazione alle misure di razionalizzazione della spesa previste nella legge di bilancio 2017 (legge n. 232/2016) – per un ammontare pari a complessivi 2,8 miliardi di euro per il 2018 e 4,7 miliardi per il 2019 per il complesso delle pubbliche amministrazioni – l’obiettivo di risparmio stabilito dal DEF 2017 a carico delle Amministrazioni centrali dello Stato e della Presidenza del Consiglio è stato determinato in 1 miliardo per ciascun anno a decorrere dal 2017, in termini di indebitamento netto.
In relazione a tale obiettivo è intervenuto il D.P.C.M. 28 giugno 2017, che ha ripartito il suddetto importo tra i vari Ministeri. Per il conseguimento degli obiettivi di spesa assegnati con il D.P.C.M. 28 giugno 2017, con il disegno di legge di bilancio 2018-2020 i Ministri hanno formulato proposte sia in termini di disposizioni legislative da inserire nella Sezione I, sia in termini di riduzione degli stanziamenti indicati nella Sezione II, funzionali al raggiungimento degli obiettivi programmati, come indicato espressamente dall’articolo 1, comma 691, legge n. 205/2017.
Anche le leggi di bilancio degli esercizi successivi hanno avuto comunque, direttamente o indirettamente, delle sezioni dedicate a misure di razionalizzazione della spesa con precisi obiettivi in termini di risparmi da conseguire da parte delle PA (centrali, regionali e locali).
Allo stato attuale, un’applicazione generalizzata di queste tecniche di analisi e valutazione della spesa pubblica rappresenta forse l’unico strumento per sterilizzare l’impatto del possibile aumento dei costi della difesa, senza provocare eccessivi traumi al nostro bilancio pubblico e ad altri comparti di spesa.
Un’azione sistematica di revisione consentirebbe di individuare, al tempo stesso, sia la spesa non più efficace (quindi inutile) oppure quella inefficiente (utile in teoria, ma con costi troppo elevati) oppure non più prioritaria (per scelta politica) e, una volta effettuati i dovuti interventi legislativi e amministrativi, permetterebbe di individuare e quantificare le eventuali economie che potrebbero consentire di finanziare gli aumenti di spesa militare senza scarificare in modo indebito la spese essenziale, senza aumentare le tasse e senza ricorrere al deficit.
Se opportunamente strutturata, specie a fronte di un impegno finanziario eventualmente diluito nel tempo, le risorse derivanti da una programmazione di bilancio basata anche su una generalizzata attività di revisione della spesa, potrebbe rendere meno difficile di quanto di pensi trovare le risorse per adeguarsi al parametro Nato.
La partita, difatti, si gioca su di un bilancio dello Stato complessivo 2022 di quasi 1.100 miliardi di euro, di cui 669 miliardi di spesa corrente e di una spesa finale (corrente più conto capitale) di 816 miliardi.
Il raggiamento del parametro Nato, difatti, rappresenterebbe l’1,79 per cento delle spese correnti e l’1,47 per cento delle spese finali.