Inizia con questo articolo una serie di interventi sul tema della riforma fiscale che sarà oggetto di uno dei convegni di approfondimento di POST.
Di Francesco M. Renne, commercialista e faculty member CUOA Business School
Il nostro sistema fiscale poggia, come ampiamente risaputo, su alcuni pilastri basilari, sanciti fin dalla stesura della Carta Costituzionale; su tutti, il principio della capacità contributiva e della progressività.
Dal che ne discendono (rectius, dovrebbero discendere) – per il realizzo dei due principi enunciati e anche sotto il profilo sostanziale, non solo a livello normativo – le necessarie esigenze conseguenti di (i) una giustizia tributaria efficiente e di (ii) una pressione fiscale complessiva ispirata a criteri di equità, sotto tre profili: equità “del” prelievo complessivo, equità “fra” contribuenti, equità “intergenerazionale”.
Invero, assistiamo da decenni ad un progressivo sfaldamento tanto di quei principi che della conseguente “equa efficienza” necessaria per raggiungerli.
La situazione è sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere la realtà: una pressione tributaria eccessiva (intorno al 42/43% del PIL, prima della pandemia); un livello patologico dell’evasione (rectius, “economia non osservata”, intendendo per essa evasione sui redditi e dell’IVA, lavoro sommerso e attività illegali, complessivamente per circa il 10/12% del PIL; il che porterebbe – secondo una stima della Fondazione Nazionale dei Commercialisti – a una pressione reale intorno al 48%); un eccessivo ricorso a sistemi presuntivi (che spesso violano il principio della capacità contributiva) e a imposizioni sostitutive (che erodono il principio di progressività); un ricorso non sempre efficiente ad istituti deflattivi (per decongestionare l’arretrato processual-tributario) che riduce la “valenza” della giustizia tributaria (in termini di “risolutore” delle controversie “in diritto”), mentre a sua volta quest’ultima soggiace a logiche interpretative “di cassa” (richiamate, anche pubblicamente, da un dirigente di vertice dell’Agenzia delle Entrate, con la locuzione della necessità di collaborare a “sentenze pilota”, non solo di merito, ma finanche estese alla Cassazione).
Per non parlare degli effetti amministrativi via via affastellatisi per via di un peso burocratico asfissiante, a carico dei contribuenti e dei loro professionisti, che si aggiunge alle inefficienze sistemiche prima ricordate e agli effetti economici di una crisi (pandemica) più lunga delle iniziali aspettative.
Non è un caso, dunque, che si sia tornati a parlare in questi mesi – ed è di metà gennaio l’avvio delle audizioni in Commissione Finanze alla Camera – di riforma fiscale. Il tema però è “quale riforma” fiscale e, soprattutto, con “quali obiettivi”?
Sulle testate specializzate (e anche in qualche audizione) si è parlato, in ordine sparso, di: cash flow tax (che “cash flow tax” invero non è) per superare il sistema degli acconti in due rate annuali sul reddito di competenza (introducendo però un pagamento mensile); digital tax (recentemente rinviata nei termini, probabilmente in attesa di pronunciamenti EU e USA); di plastic e sugar tax (ulteriormente rinviate dall’ultima Legge di Bilancio); abolizione dell’Irap (la discussa imposta sulle attività produttive; sbagliando il momentum temporale, anche se non v’è spazio in queste note per illustrarne le ragioni tecniche); flat tax (che tanto flat per tutti non era); contrasto di interessi consentendo la deducibilità delle spese a tutte le persone fisiche (contrabbandata erroneamente come “salvifica” per le casse dell’erario, ma inefficace per quell’obiettivo); inasprimento delle imposte su successioni e donazioni (oggettivamente tra le più basse fra i Paesi OCSE), senza però mettere in discussione il tabù (antistorico) delle esenzioni per i titoli di Stato e per le polizze assicurative cd. “unit linked”; patrimoniale straordinaria di solidarietà e patrimoniale ordinaria tout court (senza tener conto di definire né quale perimetro imponibile e né del problema della valutazione degli attivi patrimoniali illiquidi); abolizione delle tax expenditure (le agevolazioni fiscali ora esistenti, invero in larga misura già in parte dichiarate inefficaci, rispetto alle motivazioni della loro introduzione nel tempo, dalla Corte dei Conti), senza però indicarne l’impatto di incremento della pressione tributaria conseguente.
Nonché, da ultimo, la revisione dell’Irpef (l’imposta sui redditi delle persone fisiche), sia essa in termini di “rimodulazione” di scaglioni imponibili e/o di aliquote applicabili che “alla tedesca”, cioè sostanzialmente introducendo un’aliquota crescente lineare.
Di tutto e di più, come recitava un vecchio spot televisivo. Nel loro complesso, però, senza alcuna visione d’insieme: né del momentum storico che stiamo attraversando e né, tantomeno, di lungo periodo.
E, peraltro, con poche voci “tecniche” a chiedere un (auspicabile) dibattito pubblico adeguato (in tal senso, va doverosamente un plauso alla Commissione Finanze della Camera per l’indizione delle audizioni con l’anno appena iniziato).
Cosa occorrerebbe, dunque, per una “buona” riforma fiscale, oggi? A parere di chi qui scrive, una consecutio logica che parta da quattro obiettivi generali, poggi su cinque principi applicativi e otto azioni da implementare (più due, di cui una opzionale, condizionata a date circostanze).
I quattro obiettivi generali sono ispirati ad ottenere una riforma fiscale che dovrebbe essere (i) ambiziosa, (ii) equilibrata, (iii) razionale ed (iv) “equitativa”.
Ambiziosa, come l’obiettivo di ridurre la pressione fiscale riequilibrando il peso del prelievo e inserendo, analogamente al principio costituzionale di “pareggio di bilancio”, un “tetto massimo” sul PIL.
Equilibrata, come l’obiettivo (necessario) della sostenibilità dei conti pubblici, tendendo al contenimento del debito pubblico e al sostegno alla crescita del PIL.
Razionale, come l’obiettivo (conseguente) di riordino della spesa pubblica, puntando a qualità ed efficienza piuttosto che a quantità e burocrazia.
Equitativa, come l’obiettivo di un efficace prevenzione (più che mero “contrasto” ex post) dell’evasione fiscale e contributiva, soprattutto in considerazione degli effetti distorsivi dell’evasione sulla concorrenza e sul principio di equità.
I cinque principi applicativi, sempre ad avviso di chi qui scrive, si differenzierebbero fra tre “immediati” e due “di medio periodo”, e potrebbero essere definiti come un (i) principio di diritto, in tema di rapporto fisco-contribuente, un (ii) principio di necessarietà, in tema di sostegno alla ripartenza, un (iii) principio di equità, in tema di solidarietà sostenibile, i primi tre, nonché un (iv) principio di proporzionalità, in tema di riordino del peso dell’imposizione, e un (v) principio di efficienza, in tema di razionalizzazione burocratica e revisione del sistema sanzionatorio, gli ultimi due.
Le otto azioni da implementare, rispondenti ai cinque principi citati, discendono dalla duplice esigenza di riequilibrio del sistema e di ricerca di quella smarrita “equa efficienza” segnalata all’inizio di queste brevi note.
La prima, rispondente al “principio di diritto”, consiste nell’introduzione di un’Authority di Garanzia fiscale terza. In dettaglio, l’idea nasce da una duplice considerazione.
Una è che lo Statuto dei diritti dei Contribuenti è nei fatti, a vent’anni dalla sua introduzione, (se non “la”, norma) una delle norme più disattese, in campo giuridico economico, da parte di un’Amministrazione dello Stato e finanche dal Legislatore stesso, a volte (oltretutto, con buona pace delle ambizioni in tal senso, probabilmente non raggiungerà mai l’elevazione a rango Costituzionale).
L’altra è che oggi esiste una – potenzialmente eccessiva – concentrazione di funzioni nel binomio MEF/AdE che trascende il (doveroso) principio della separazione dei poteri: infatti, coesistono funzioni di (proposte di) normazione primaria (quando non proprio di scrittura per il Governo), di normazione secondaria, di interpretazione delle norme (che i due Enti hanno spesso contribuito a scrivere), di accertamento verso i contribuenti, di esercizio della gradualità dell’irrogazione delle sanzioni, di riscossione coattiva, di concessione di mediazioni, proposte di adesione e transazione concordataria del debito tributario e – ultimo, ma non ultimo – di coordinamento dei Garanti del Contribuente.
Un binomio, insomma, che contemporaneamente: scrive, anche quando non dovrebbe; interpreta, ciò che ha scritto, non sempre in maniera immune dal dubbio di farlo “pro-erario”; accerta, rispondendo a esigenze spesso “di cassa” e non “di diritto”; escute, coercitivamente ciò che ha accertato; decide se e quanto proporre in adesione, di ciò che ha accertato; media e transa, su ciò che ha generato come debito esecutivo; garantisce (forse), i destinatari di tutte le attività precedenti.
L’auspicabile Authority sottrarrebbe ( a costo essenzialmente zero per il bilancio dello Stato, anche avvalendosi del personale già ora preposto, ma “guidata” da Commissari “terzi” indipendenti, di nomina parlamentare tra funzionari pubblici, mondo professionale e dell’accademia); i poteri (da rivisitare e ampliare) di interpello, dando maggiore certezza ex ante; i poteri di mediazione, dando garanzia di terzietà di valutazione; i poteri di coordinamento dell’attività (da rafforzare) dei Garanti dei contribuenti.
La seconda, rispondente al “principio di necessarietà”, consiste nell’introduzione di un premio fiscale alla crescita. Tale meccanismo si presenterebbe come una “dual income tax incrementale condizionata” (rectius, sistema a doppia aliquota sui redditi d’impresa, di cui una aliquota agevolata).
In sostanza, verrebbero fissate tre “condizioni di ingresso” all’agevolazione: operazioni di aggregazioni e fusioni; operazioni di apertura del capitale al private equity o ai mercati regolamentati dei capitali; accesso all’istituendo (contestualmente all’introduzione della norma) istituto dei “finanziamenti attestati” di lungo termine (cd. “matusalem financing”; ovvero finanziamenti a lungo termine per crescita aziendale, supportati da business plan attestati analogamente a quanto avviene per le procedure di risanamento delle imprese in crisi).
Qualora un’impresa effettui una di queste tre “operazioni”, tipiche dei processi di crescita dimensionale (il nanismo medio delle imprese italiane è una delle concause della bassa competitività del nostro sistema-Paese), sul reddito incrementale – rispetto al dato pre-operazione – realizzato annualmente (e solo su detta parte, “ove” realizzata di anno in anno) nei primi tre/cinque anni successivi si applicherebbe un’aliquota agevolata, così da non ledere il gettito già “consolidato” sui livelli reddituali preesistenti.
La terza e la quarta, rispondenti al “principio di equità”, consistono nell’introduzione di un principio di postergazione del debito tributario per favorire la tutela dell’occupazione e nell’introduzione di un fondo di solidarietà pubblico-privato a tutela delle fasce di lavoro “non garantite”.
Nello specifico, la terza azione si svilupperebbe inserendo un elemento premiale al nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, aggiuntivo a quelli già esistenti e condizionati all’assenza di dolo e alla sussistenza delle condizioni di meritevolezza ivi previste.
Tale nuovo elemento premiale consisterebbe nella sospensione dei pagamenti delle imposte – che non verrebbero cancellati ma solamente rinviati – condizionato a dichiarati obiettivi di mantenimento dell’occupazione nella procedura di risanamento sotto l’egida degli Organismi di Composizione della Crisi e/o del Tribunale, generando una sorta di postergazione del debito tributario rispetto al costo del lavoro e favorendo i percorsi di maggiore tenuta sociale nelle crisi d’impresa.
La quarta, invece, consiste nella creazione di un fondo pubblico-privato di solidarietà destinato all’erogazione di sussidi per le fasce lavorative (dipendenti e/o autonome) meno economicamente garantite (in questa come in altre successive crisi), senza ricorrere a misure coercitive fiscali sui redditi dei cd. “garantiti”, ma sfruttando l’inserimento di una specifica deducibilità fiscale per gli importi volontariamente destinati al fondo stesso.
La quinta e la sesta, rispondenti al “principio di proporzionalità”, consistono nella riforma Irpef (vero oggetto delle audizioni alla Camera) e nella revisione delle tax expenditure inefficienti.
In particolare, ai fini che qui interessano, privilegiando la revisione delle aliquote intermedie e allargando l’ampiezza degli scaglioni imponibili, ottenendo così una riduzione del carico tributario sui redditi medio-bassi e una minor pendenza della curva progressiva, che invece verrebbe rivista nella successione delle aliquote (ed abbandonando così la tautologica evocazione del sistema “alla tedesca”), nonché privilegiando l’eliminazione di quelle agevolazioni micro-settoriali già oggetto della scure di una relazione della Corte dei Conti di qualche anno addietro.
La settima e l’ottava, rispondenti al “principio di efficienza”, consistono nel completamento di una “vera” digitalizzazione della burocrazia amministrativa e nel riordino del sistema sanzionatorio.
In dettaglio, e senza qui pretesa di esaustività, occorre completare la transizione verso la piena “digitalizzazione efficiente” (non “parziale e/o inefficiente” come ora) della macchina fiscale e dei relativi adempimenti richiesti al contribuente e, per proprietà transitiva, ai suoi professionisti. nonché rivedere il sistema sanzionatorio, invertendo il principio e favorendo le regolarizzazioni spontanee.
Ciò sarebbe facilmente ottenibile se invece che avere sanzioni elevate, ma riducibili a date condizioni temporali di pagamento (che spingono a “chiudere” anche posizioni in cui il contribuente ha “diritti” da far valere e nei fatti non differenziano fra buona fede, colpa e dolo), si avesse un sistema di sanzioni progressive, crescenti al crescere del ritardo ed escludendo i casi di dolo comprovato, così da rendere più equo il sistema fiscale nel suo complesso.
Le due ulteriori aggiuntive, infine, sono dettate da due esigenze diverse. Una è “conseguenza necessaria” di tutto quanto sin qui detto ed è il completamento della riforma della giustizia tributaria, secondo linee guida che “importino” nei progetti legislativi in discussione i principi e le azioni qui richiamate.
L’altra è “situazione contingente”, dettata – a date circostanze – da specifiche esigenze di gettito e di tenuta dei conti pubblici e attiene al tema patrimoniali & affini, sollevando qui – per mere ragioni di spazio – che il tema meriterebbe di essere affrontato tenendo conto di tre considerazioni: (i) talune patrimoniali ricorrenti esistono già nel nostro sistema, quindi introdurne una (straordinaria o a regime che sia) comporta l’esigenza di una piena correlazione/integrazione con quanto già in essere; (ii) una “buona” imposta sulle successioni e donazioni – per ragioni sia economiche che di equità – è certamente (e tecnicamente) “meglio” che una “distorsiva” imposta patrimoniale, ove questa non abbia le caratteristiche di essere “globale”; (iii) occorrerebbe infine, nel caso, avere il coraggio di riordinare il perimetro della base imponibile, eliminando le attuali (anacronistiche) distorsioni fra strumenti similari (es. patrimoni finanziari e polizze assicurative unit link – non ramo primo – e/o titoli del debito pubblico).
Insomma, al lettore sentenziare – oltre che se essere d’accordo o meno – se quanto fin qui descritto sia un “utopico libro dei sogni”, un “oggettivo ululare alla luna” ovvero un “progetto percorribile figlio di una visione d’insieme”.
Quel che conta, invero, data l’importanza del tema, è “tenere in piedi” il dibattito.