Tra le due, non perdiamo la strada di scuola

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Potremmo parlare della scuola ai tempi del covid 19, ma non sarebbe utile. È stato abbondantemente già fatto.

Di Adele Fraracci, docente di storia e filosofia nei licei, giornalista pubblicista, impegnata in molteplici attività nell’ambito della cittadinanza a favore dei giovani, divulgatrice e promotrice di incontri con personalità della cultura e della politica in Molise, ideatrice e conduttrice di un caffè filosofico a Campobasso con Simonetta Tassinari; autrice e presente con contributi poetici in antologie.

Le analisi, tutte, portano a aver compreso che la triste esperienza pandemica ha offerto una inconfutabile chiave di lettura: l’emergenza covid nella istruzione, come negli altri settori, è stata una lente di ingrandimento che ha fatto risaltare le criticità e i vuoti del sistema Italia. Lo ha mostrato pure ai più disattenti, ai miopi, finanche agli indifferenti.

Il welfare state è non solo entrato in crisi da tempo per le note ragioni collegate tanto allo scenario geopolitico internazionale, quanto al quadro interno del paese, ma è stato, più o meno scientemente, abbandonato e mandato in rovina dalle varie forze di governo che si sono succedute, al punto che proprio nella emergenza covid si è acclarato che le prestazioni universalistiche, istruzione e sanità in primis, si sono nel tempo sempre più trasformate in prestazioni censitarie.

È evidente, quindi, che ora bisogna scegliere circa due visioni di scuola, le quali sono anche due visioni differenti per affrontare le sfide e risolverle in prospettive reali: cittadinanza democratica o cittadinanza censitaria. Bisogna scegliere. Nel farlo ce ne si assume l’intera responsabilità; inequivocabilmente si tratta di una scelta politica, d’indirizzo.

Dinanzi alla scuola si stagliano ora due strade: 1) utilizzare il covid come acceleratore per continuare a destrutturare quel che è rimasto della sua “tradizionale” missione in nome della “innovazione”, mettendo cioè a regime il modello formativo aziendalistico mirato alla costruzione dell’homo oeconomicus; 2) utilizzare il covid per bloccare questa corsa acritica verso la implementazione delle pratiche “innovative”, passate sotto acronimi impossibili da citare tutti – se ne contano più di 1000 da applicare o collegare alla scuola – per ridiscuterle, rimodularle e, ove necessario, cassarle in vista del modello formativo democratico, che punta alla costruzione del cittadino.

Giacché è la democrazia che sta a cuore, va da se che non si può che optare per un cambio di rotta, nutrito di coraggio e di capacità di visione, che possa mirare alla costruzione della seconda strada, da mettere in sicurezza, scontatamente assieme all’edilizia scolastica; quest’ultima oggi tornata centrale, anche nel rispetto del distanziamento sociale causa covid.

Nel sostenere la costruzione di questa strada, è bene puntualizzare che non si negano qui le tecnologie, le quali sono strumenti utili alla didattica e da lustri, non a caso, utilizzate nelle sue proteiformi versioni nel processo di insegnamento-apprendimento. In tal senso l’innovazione a scuola c’è senz’altro stata e con risultati anche doviziosi.

Qui si nega che le tecnologie possano essere sostitutive degli altri strumenti e della interazione didattica in presenza, dentro l’edificio scolastico.

Qui si sospetta circa la validità della tecnica applicata alla scuola, che ha significato appiattimento del docente e finanche dello studente a essere “uomini di apparato”, sottomessi alle tre e ( economicità , efficacia e efficienza), principi tipici della burocrazia e piegati al risultato, alla cosiddetta performance, secondo il modello aziendalistico.

Qui si confuta il processo di omologazione e conformismo che ha valorizzato la logica convergente – prove INVALSI e tutto il corredo di quiz e test, secondo modello di valutazione esterofilo e anglosassone; la logica divergente è invece, per intenderci, quella che ha assicurato di fare sempre grandi balzi avanti nella storia delle idee, ha valorizzato lo spirito critico e rispettato le intelligenze multiple.

Qui si stigmatizza l’appiattimento della scuola, destinata a abbassare sempre più l’asticella formativa e culturale, a rinnegare la specificità dei gradi, degli ordini e dei suoi indirizzi.

Qui si propone di restituire linfa alla scuola sul suo terreno democratico, di partecipazione attiva e consapevole, che significa: insegnare la prima competenza trasversale, saper scrivere e esprimersi in madrelingua (val la pena sottolineare che la nostra lingua si pronuncia esattamente come si scrive; importantissimo è perciò l’allenamento alla scrittura, il quale non può essere ridotto a crocettare quiz, secondo modello anglofono).

Riprendere il filo rosso della Costituzione e rimettere in moto l’ascensore sociale di cui l’articolo 3 ne è la summa; recuperare il concetto di governance come rete per il patto educativo a beneficio degli studenti italiani con i genitori, gli enti locali e gli attori del territorio, tenendo ben presente che essa non significa, però, mettere a regime quel che già stiamo vivendo a causa delle riforme di governi degli ultimi lustri: l’invasione delle scuole “Manu militari” da parte di enti, società, anche di profitto, associazioni, para associazioni; bloccare ogni tentazione di far passare il regionalismo differenziato o rafforzato attraverso l’istruzione, demandando la materia alle regioni e di fatto determinando la dicotomia tra scuole ricche e scuole povere.

La lezione risorgimentale così come quella repubblicana è stata sempre una: la scuola deve fare da collante nazionale. Essa è stata fondante, prima, per “fare gli Italiani”, poi, come ci ha detto Piero Calamandrei, per essere baluardo democratico della Repubblica, una e indivisibile. La solidarietà é grande parola contenuta nella nostra Carta, la scuola la deve insegnare e la deve far praticare, in ossequio al merito. Su quest’ultimo poggia davvero la democrazia come ridistribuzione di ricchezze e di competenze.

E allora, considerato che sulla scuola democratica e competitiva a livello economico e spirituale non basta un libro dedicato, figuriamoci un articolo, è bene approfondire almeno un tema, non a caso prima accennato, e che potrebbe apparire limitato, ma che invece è punto propedeutico per poter realizzare il tutto, tanto resto: l’insegnamento della lingua italiana.

Lingua italiana dispersa, disperde democrazia, rispolverando don Milani; è assiomatico: sapere l’italiano serve per saper studiare, saper pensare, poter prendere parola e comunicare, saper ascoltare, comprendere i testi, i più differenti, cogliere la realtà, sempre più complessa; sul possesso della lingua italiana poggia il successo formativo delle altre discipline ( dalla matematica alla geometria, alla fisica, al diritto, alla storia, alla informatica, ecc.), così come tutte le materie concorrono a ampliare il lessico e a dare sostegno alla lingua.

Insomma l’italiano: 1) è il punto cardinale per essere cittadini consapevoli e attivi in democrazia, anche in qualità di lavoratori – il possesso della madrelingua rientra, del resto, nelle stesse indicazioni della Unione Europea in materia di istruzione al fine dell’esercizio di una cittadinanza consapevole e responsabile; 2) è baricentro dello sviluppo della persona, in termini di successo sul piano razionale e, al contempo, sentimentale. Si, perché i sentimenti si avvertono ma devono essere riconosciuti e spiegati a se stessi e a ai propri interlocutori per saper vivere in equilibrio, interrogarsi adeguatamente e saper rispondere sequenzialmente.

La lingua italiana, così concepita e così palpitante, può mai essere ridotta a valutazione in quiz o prove strutturate secondo logica convergente?

E il Ministero all’istruzione perché esso stesso insiste, nei suoi documenti, a utilizzare motti “anglo- pedagoghesi astrusi e esoterici”?

La praxis, è assiomatico, è davvero “buona pratica” quando è sostenuta da coerente e lucida teoria, nutrita di pensiero critico, allenata nella capacità di riflettere sugli effetti dei propri comportamenti, altrimenti non si chiama praxis ma mera esecutività, ahinoi eterodiretta dall’alto.

A esser meramente esecutivi si può essere bravi quanto un Eichmann, vero talento logistico, ma egli, certamente, non può essere un esempio di riferimento né per la P.A. né per la scuola; non è un caso che la filosofa Hannah Arendt lo abbia preso a esempio per spiegare come nella storia, in nome della tecnica e della efficienza, possa trionfare “la banalità del male”.
Ecco che solo una democrazia sostanziale – e non solo formale- può restituirci buone pratiche, buone davvero.

La palestra non può che esserne la scuola; su essa si deve investire, anche in termini economici, sapendo esattamente come e autenticamente il perché,
inequivocabilmente percorrendo la seconda strada, l’unica competitiva sul piano materiale e spirituale, quella strettamente connessa al “recupero” dello Stato di diritto sociale e della cittadinanza democratica.

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