La centralità del Parlamento quale fattore di bilanciamento tra la salute pubblica e la tenuta economico-sociale del Paese

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Giovanni Zarra, Docente di diritto internazionale presso l’Università Federico II di Napoli

È possibile conciliare la salute pubblica con la tenuta economico-sociale del Paese?

È questa la principale domanda a cui oggi il Governo italiano sta provando a dare una risposta. Ed è questa la questione rispetto alla quale ciascuno di noi, dentro di sé o durante una chiacchierata con congiunti, ha certamente di recente espresso il proprio punto di vista.

Nell’ottica dello studioso del diritto il problema non può che essere affrontato attraverso il prisma delle categorie giuridiche; principalmente quelle del diritto costituzionale, ma altresì quelle del diritto internazionale dei diritti umani (ed in particolare della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Ebbene una lettura attenta della nostra Carta Costituzionale rivela che laddove la tutela dei diritti previsti in Costituzione abbia luogo attraverso le modalità immaginate dal Costituente, certamente è possibile giungere ad un più adeguato bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute (art. 32. Cost., ma anche art. 2 CEDU – quest’ultimo più genericamente in tema di tutela del diritto alla vita), da un lato, con la libertà personale (art. 13 Cost., ma anche art. 5 CEDU), la libertà di circolazione (art. 16 Cost., ma anche art. 2, Prot. 4 CEDU) e la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost., ma anche art. 1, Prot. 1 CEDU – quest’ultimo più genericamente in tema di tutela della proprietà privata), dall’altro lato.

Se certamente la tutela della salute costituisce un validissimo (rectius, il principale) motivo per limitare – seppur provvisoriamente – il godimento di altri diritti, è anche vero che i nostri Padri Costituenti hanno immaginato un procedimento ben definito perché questa limitazione abbia luogo.

In particolare, è la legge a dover prevedere i tempi e i modi con cui i diritti delle persone possano essere limitati ed è la legge a dover prevedere come l’iniziativa economica non si svolga in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla libertà, alla sicurezza e alla dignità umana.

Ma perché tali e tanti riferimenti alla legge?

La risposta si trova, ancora una volta, nella Costituzione. La legge è emanata in seguito ad un farraginoso procedimento che vede protagoniste le due Camere (che devono approvare il medesimo testo articolo per articolo – art. 72 Cost.)  e vede il coinvolgimento del Presidente della Repubblica, il quale non sono promulga gli atti legislativi (assumendosene, seppur formalmente, la paternità – art. 73 Cost.) ma ha altresì il potere, per una volta sola, di reinviare il testo alle Camere accompagnato da un messaggio motivato, allo scopo di incentivare un’ulteriore riflessione in seno al Parlamento (art. 74 Cost.).

Ma non basta: una volta che la legge sia finalmente in vigore, su di essa può sempre giudicare la Corte Costituzionale laddove il testo approvato si riveli poi effettivamente in contrasto con il godimento dei diritti tutelati in Costituzione.

Tutti questi meccanismi di pesi e contrappesi sono volti a garantire l’effettiva e costante tutela delle libertà attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di più organi, primo fra tutti il Parlamento (rappresentante della volontà popolare).

Il Costituente, comunque, non ha tralasciato la possibilità che una situazione di crisi come quella generata dalla pandemia da COVID-19 sia regolata attraverso un procedimento più snello di quello sopra sommariamente tratteggiato.

L’art. 77 della Costituzione introduce lo strumento del decreto legge, da adottare in sede governativa soltanto in casi di necessità ed urgenza (anche se, purtroppo, la prassi italiana depone in senso ben differente).

Una volta adottato il decreto, il Governo ha il dovere di presentarlo immediatamente alle Camere affinché esso sia convertito in legge; queste, poi, dovranno riunirsi entro cinque giorni dalla presentazione del testo e provvedere alla conversione entro 60 giorni.

Questo meccanismo è volto a coinvolgere attivamente la rappresentanza popolare nella gestione della crisi, nonché per vagliare la legittimità dell’agire del Governo, specie nei casi in cui questo abbia eccezionalmente scavalcato le garanzie costituzionali.

Date queste premesse di carattere generale, possiamo adesso brevemente descrivere le modalità con cui è stata gestita la crisi da Coronavirus allo scopo di verificare se tali modalità siano conformi al dettato costituzionale.

Come noto, lo stato di emergenza è iniziato il 31 gennaio 2020. Tuttavia è solo a partire dal decreto legge n. 6 del 23 febbraio 2020 (convertito in legge 5 marzo 2020 n. 13) che la regolamentazione della crisi ha assunto la fisionomia che oggi tutti ben conosciamo.

In particolare, è stato stabilito che le successive misure volte a gestire l’emergenza sarebbero state adottate tramite atti amministrativi, ossia i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Inoltre, nelle more dell’adozione dei DPCM, i Presidenti delle Regioni avrebbero potuto emanare ordinanze allo scopo di gestire provvisoriamente la crisi sanitaria.

Si è quindi arrivati al lockdown nazionale e ad alcune misure regionali fortemente limitative della libertà personale e della libertà di circolazione.

Si pensi che nella regione Campania il divieto di attività motoria all’aperto (rectius, passeggiate) è stato assoluto e che chiunque sia stato colto nello svolgimento di tale attività è stato sottoposto a internamento domiciliare per 14 giorni, a prescindere dal fatto che tale soggetto fosse effettivamente contagiato.

Come giudicare dunque la gestione della crisi?

Sul punto, per quanto riguarda le politiche nazionali, una premessa è d’obbligo: il Governo si è trovato di fronte ad uno scenario imprevisto ed inimmaginabile (si pensi alle ondivaghe opinioni pubblicamente espresse dai grandi esperti della materia) e dunque, nonostante quello che si dirà fra breve, ha tutte le attenuanti del caso.

Non si può, tuttavia, soprassedere di fronte al fatto che le modalità che la Costituzione prevede per la gestione di crisi come quella attuale sono rimaste largamente inutilizzate e ciò non solo perché il DPCM – in quanto atto amministrativo – non è soggetto a tutte le garanzie e ai controlli individuati per gli atti di legge o aventi forza di legge, ma anche perché, nel delegare una così ampia funzione legislativa in mano ad un solo uomo, non ci si è curati di delinearne accuratamente i contorni ed i limiti.

Con il che il bilanciamento che avrebbe dovuto compiersi in Parlamento (tra forze politiche espressive di interessi diversi) tra le esigenze di tutela della salute e quelle di salvaguardia delle libertà sopra individuate non ha mai avuto luogo.

Certamente il passaggio in Parlamento avrebbe rallentato la gestione dell’emergenza, ma nel caso dei decreti legge, come abbiamo visto, tale passaggio ha luogo quando l’atto è già in vigore e quindi, dal punto di vista degli effetti immediati, nulla sarebbe cambiato.

Adottando decreti legge, tuttavia, avremmo avuto quantomeno una forma di responsabilizzazione del Governo di fronte alle Camere e, quindi, di fronte al popolo. Avremmo avuto, in ultima istanza, un vero dibattito politico su questioni cruciali per la vita del Paese di cui avremmo urgente bisogno.

Per quel che concerne le decisioni regionali, poi, merita un breve cenno la menzionata misura di c.d. “quarantena obbligatoria” in vigore nella Regione Campania.

Si tratta di un rimedio probabilmente sproporzionato rispetto agli obiettivi ad esso sottesi (evitare la diffusione del contagio): si pensi ad un soggetto cardiopatico (ma non affetto da COVID-19) a cui è caldamente consigliata un’ora di cammino al giorno.

Costui non solo è stato privato della possibilità di curarsi, ma è stato anche posto di fronte alla minaccia di un internamento domiciliare (misura certamente proporzionale nei casi di soggetti malati ma non di quelli sani) con la conseguenza di non potersi neppure successivamente approvvigionare di generi alimentari e farmaci.

Si tratta di pratica quantomeno discutibile alla luce della rilevante normativa CEDU e della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Lascia perplessi, peraltro, che una simile sanzione (di natura penale) sia stata introdotta nell’ordinamento con ordinanza del Presidente di una Regione; ordinanza che avrebbe dovuto essere adottata soltanto nelle more dell’adozione dei DPCM.

Non sorprende, comunque, che l’opinione pubblica – spesso mal informata – non si sia rizelata di fronte a tale scenario (sia sul piano nazionale che su quello locale).

La paura generata dal Coronavirus è stata, come tutte le paure, accompagnata da una pronta accettazione della possibilità di vedere ridotti i propri diritti.

Ma adesso è chiaro a molti che – di fronte alla paura – il popolo è ancora oggi pronto a rinunciare alle proprie garanzie. E se di fronte a una crisi sanitaria globale un simile scenario eccezionale può in minima misura essere tollerato, in altre situazioni questo non è assolutamente accettabile. Senza dimenticare che, con i mezzi tecnologici di oggi, la paura è facilmente manipolabile.

Ecco allora che le garanzie costituzionali devono tornare di moda. Solo attraverso un adeguato coinvolgimento parlamentare si può provare a ottenere la ponderazione di interessi che è propria di qualsiasi ragionamento in tema di diritti umani.

Solo comprendendo il valore della centralità del Parlamento si eviterà di ripetere errori del passato dei quali, spesso, si dimentica troppo rapidamente.

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